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recensione di Papuzzi, A., L'Indice 1994, n. 1
Volume I, capitolo IX pagina 183: "È vertiginoso certe volte ripensare alla propria vita". Si può prendere questa lieta e gratificante constatazione - che nasconde un'autoironia vanamente sveviana -, come il leitmotiv di questo romanzo in sei parti. La sua storia è stata abbondantemente raccontata dai giornali: si tratta di un'autobiografia pronta per la stampa trent'anni fa, non pubblicata per l'improvviso fallimento dell'editore. A posteriori si può dire che è stata una fortuna per l'autore. Corse il rischio di entrare nella schiera di quegli scrittori degli anni sessanta più o meno legati al realismo, fatti fuori dalle avanguardie letterarie. Invece è diventato un noto giornalista ("Il Giorno", "Panorama" "L'Espresso", "la Repubblica", la direzione dell'"Europeo"). Così noto da essere eletto due volte deputato nelle file del partito radicale. Ma soprattutto è stata una fortuna per l'autobiografia, a giudicare dai primi due volumi: stampata trent'anni dopo senza modifiche, "libro postumo di uno scrittore vivente", come osserva amabilmente nella prefazione Vittorio Spinazzola, ha acquistato un carattere allegramente nostalgico, si è trasformata in un 'amarcord' spontaneamente surreale. Parla infatti di un mondo che non esiste più: la piccola borghesia milanese prima del boom. Ma poiché Melega scriveva nel 1961 quando aveva ventisei anni - anche se noi lo leggiamo per la prima volta oggi -, quel mondo è rappresentato come se non fosse passato, con una specie di innocenza, e talvolta ingenuità, soprattutto con una grande voglia di raccontarlo, pezzetto per pezzetto, con il gusto di perdersi nelle descrizioni, di ricostruire i dialoghi, di far rivivere una folla di personaggi. Di certo Melega non economizza le parole, ma è un giornalista di razza, con il dono di raccontare: l'opera è come una sterminata cronaca, in cui ogni persona e ogni cosa ritrovano il posto che spetta loro.
Il Primo volume, "Addio alle virtù", è soprattutto il ritratto di una Milano postbellica e sbrindellata, che a Melega ricorda Cicero, il quartiere di Chicago cittadella del gangsterismo. Nel secondo libro, "Delitti d'amore", le storie di donna, di eros e di sesso fluiscono come i detriti di un fiume che narri la falsa potenza maschile. Più che un romanzo, "Tempo lungo" è un contenitore, uno zibaldone, un "com'eravamo", dove si trova un po' di tutto: ricordi, dialoghi, elenchi bozzetti, frammenti poetici, brani epistolari, appunti sparsi; canzoni popolari. L'insieme possiede però un formidabile centro di gravità: l'autore stesso. "Niente di meglio per Melega - scrive ancora Spinazzola - che applicarsi a rappresentare l'oggetto più conosciuto e che più gli stava a cuore, cioè se stesso". E questo "se stesso" di trent'anni fa era sicuramente un tipo interessante, perché non ci si annoia, anzi ci si diverte.
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