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recensione di Pieri, M., L'Indice 1995, n.10
Bernardino Ricci fu uno degli ultimi grandi buffoni rinascimentali, estremo difensore di un mestiere antico e difficile - un'arte nel senso pregnante e polisemico del termine - che nella prima metà del XVII secolo stava per essere travolto dall'irresistibile ascesa degli attori professionisti, quei comici dell'Arte che ne erano appunto i più diretti eredi. Della sua esperienza di specialista dell'intrattenimento per i signori di casa Medici e di varie altre corti italiane, egli tenta un bilancio scritto, che è anche un'appassionata apologia difensiva, con questo trattato degli anni trenta, intelligentemente recuperato da Teresa Megale insieme con un manipolo di lettere, che ne costituiscono l'indispensabile complemento privato. Siamo in anni in cui anche parecchi attori stanno fissando a stampa, in una serie di scritti teorici e drammaturgici una sorta di mitografia collettiva del loro lavoro, dove, soprattutto, si preoccupano di fissarne la fisionomia colta, prendendo le distanze dai suoi infami archetipi del meretricio e della buffoneria. Così il Tedeschino replica, sullo stesso terreno, accreditandosi, in un trattato dialoghistico di stampo vanamente ciceroniano, come "Cavalier del Piacere" - sinonimo nobilitante di buffone -, esponente di una cultura orale che attinge dal grande libro della vita e abbraccia la totalità del mondo e dell'uomo per offrire ai suoi signori le proprie doti di conversatore, mimo e imitatore, capace di virtuosismi musicali, acrobatici e, soprattutto, verbali. Da uomo senza lettere qual è, il Ricci detta il trattato a qualche portavoce compiacente, traduttore in termini eruditi del suo giullaresco monologare, di cui invece gli sgangherati periodi delle lettere (ad esso giustamente affiancate, con una scelta di valore più metodologico che documentario) restituiscono la viva voce.
Ritroviamo, così, la serie antica delle riflessioni intorno al comico, alla sua funzione umana e civilizzatrice, a una sua possibile versione onorata, frutto di avvedute autocensure, che lo rendano praticabile entro l'universo di una corte civilizzata di castiglionesca memoria, e, accanto a esse, il catalogo delle competenze retoriche e tecniche di uno specialista anomalo, antagonista tradizionale del cortigiano, che professa la propria sincerità e buona fede contro la prezzolata genia degli adulatori e che rivendica, secondo antichissimi 'topoi' giullareschi, il possesso di un sapere eclettico e vastissimo, da esibire con sapiente sprezzatura in improvvisate 'performances'. Tante referenze, nondimeno, non bastano a salvarlo storicamente dalla deriva dequalificante della cortigianeria seicentesca, ormai dominata da nani e parassiti; il suo mansionario si allarga a comprendere funzioni sempre più eterogenee e marginali (da 'baby sitter' dei giovani principi a corriere, a faccendiere, a spia...), in un degrado inarrestabile che farà del personaggio il misero zimbello di cui ci parla la tradizione letteraria e operistica ottocentesca, mentre in età moderna le sue varianti aggiornate del saltimbanco e del clown trapassano nell'immaginario iconografico degli artisti secondo collettivi e ambigui processi di identificazione.
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