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Un libro intenso e coraggioso, capace di fare i conti con il disincanto generazionale, tra piccole e grandi meschinità. Le pagine si aprono come un cassetto delle cose, prime e ultime, che diventano luoghi unici e immateriali per descrivere l’amore e il suo opposto.Chiara e Lorenzo Romano hanno rispettivamente ventidue e diciassette anni. Subiscono l’abbandono del padre Claudio e le conseguenze della malattia mentale della madre Silvana. Agiscono lungo un limes/limen, limite e soglia, in bilico tra la vita e la morte, la speranza e il desiderio di altro nell’altrove dell’esistenza. Lorenzo vive l’intensità di un amore in cui crede con tutto se stesso; Chiara orienta la sua giovane età con la maturità di una donna e la fragilità del suo divenire; Sandro dispensa anestetici liquidi alla comunità di vecchi ubriaconi della zona. Angelo Argondizzo ci regala un’opera prima, che sembra frutto di una grande maturità artistica, caratterizzata da un ottimo labor limae e da un’interessante ricerca lessicale. Si muove con perizia tra rovine di luoghi e frammenti di cuori. Scandaglia esistenze con perizia descrittiva e narrativa. Le pagine diventano paladine dell’urgenza del narrare, del bisogno di scegliere con cura le parole, per metterle insieme e farle coesistere nella relazione stringente tra lessico e sintassi, forma e significato, in un rapporto sorgivo e misterioso.. L’autore ha uno sguardo acuto, che gratta la superficie delle cose e dei volti. C’è stato un tempo in cui per le strade della vecchia città si sentiva il profumo del pane appena sfornato; un tempo il cui il giubilo urlante dei bambini cancellava il ricordo del rientro a casa dei loro padri ubriachi; un tempo in cui porte e finestre non erano color ruggine; un tempo in cui le stagioni non erano scolorite o sbiadite. C’è stato un tempo, forse, ma… se il dolore fosse per sempre? @Elisa Chiriano
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