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L’impressione che ho avuto è stata quella di un autore in crescita, di un autore che ha saputo trovare la propria dimensione di scrittura, la propria maturità letteraria. La “tana”, infatti, si presenta come un racconto dai molteplici fili conduttori, che si intrecciano, annodano e sciolgono tra loro più volte. Molteplici sono i personaggi anche se due risultano essere quelli principali. Ognuno ha la sua storia e queste sono le “loro” storie, nel senso che ogni personaggio trova il suo specifico spazio ed è solo l’interessante meccanismo della ricostruzione della memoria perduta a ricondurre i fili al gomitolo unitario da cui erano stati sciolti, a delinearne l’intreccio. Se per uno dei protagonisti, Jacopo Marrani, la ricostruzione della memoria, il suo lento risalire il fiume della vita verso la “tana del salmone”, da cui tutto avuto inizio e da cui tutto potrebbe ricominciare, è un momento essenziale, dato che la memoria l’ha persa del tutto, per la sua psichiatra, Veronica Pessé, il ripercorrere il letto di questo fiume, seduta accanto al letto d’ospedale di Jacopo, è, comunque, occasione per confrontarsi con il proprio passato e, quindi, con sé stessa. Questo ripercorrere la memoria è, anche, il meccanismo attraverso il quale Abbate ci conduce di storia in storia. Storie spesso emozionanti, passionali, a volte drammaticamente violente, anche se, qui, non ritroviamo l’insistere sistematico sullo sviluppo violento e sanguinoso delle vicende, che avevamo conosciuto con “i fetenti”, questo è, infatti, come dicevo, romanzo maturo e di riflessione, oltre che di azione, in cui i moti dell’animo contano almeno quanto le pulsioni del corpo e dell’amore carnale. Se con “i fetenti” ci muovevamo nel noir, quasi dalle parti del pulp, qui il noir si arricchisce di quadri di vita, che sono piccoli ritratti di vita nazionale, e si tinge di sfumature psicologiche e, forse, aspira a diventare quasi metafora dell’esistenza.
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