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Martini, Alessio, Storia di un libro. Scoperte e massacri di Ardengo Soffici, Le Lettere, 2000
Soffici, Ardengo, Sull'orlo dell'abisso, Luni, 2000
recensioni di Onofri, M. L'Indice del 2000, n. 11
In un punto cruciale della Giustificazione al suo Novecento passato remoto, stranamente passato sotto silenzio dai tanti recensori in cui mi sono imbattuto, Luigi Baldacci fa un'affermazione tutt'altro che pacifica, riguardante alcuni intellettuali d'inizio secolo per scorporarne e premiarne, di contro al loro reazionarismo, "la pura e nuda letteratura": "Intendiamo dire che se quei letterati s'illudevano di fare una cosa (scatenare la guerra) in realtà ne facevano un'altra, e la cosa che facevano era inventare il futurismo, stabilire una circolazione di temi con le avanguardie d'Europa, non a senso unico ma in parità di scambio, ecc. ecc. Senza di quei cattivi intellettuali la guerra sarebbe scoppiata lo stesso, ma il nostro secolo, senza di loro, avrebbe rischiato, culturalmente parlando, di essere la prosecuzione amorfa di quello che lo aveva preceduto". È davvero possibile un ridimensionamento così drastico (contro una vulgata da sempre corrente) di tutta l'agitazione guerrafondaia di quegli anni, problematizzando fortemente, con non poca audacia critica, ogni rapporto di causa ed effetto tra idee ed eventi? E lasciando pure cadere con decisione, sul piano del giudizio, e nel quadro del ritratto complessivo, certi approdi ideologici, per valorizzare alcuni aspetti letterari o altri elementi? La questione meriterebbe una discussione tra le più impegnative. Posso solo aggiungere che nell'Italia di quegli anni, nonostante Croce, Gentile e l'idealismo, erano davvero pochi, nella classe dirigente, a credere alle idee, e a quella, supremamente protestante, che le idee potessero cambiare il mondo. Ma il discorso sarebbe lungo.
Quando parlava di cattivi intellettuali, oltre che a Papini e Marinetti, Baldacci pensava certamente ad Ardengo Soffici, che era stato anche l'autore di Lemmonio Boreo (1912), il romanzo di quell'"eroe popolare giustiziere" che imperversa nella campagna toscana perpetrando violenze d'ogni sorta, e che Cecchi avrebbe giudicato di "una moralità senza morale, puramente manesca": se non fosse venuto poi lo squadrismo fascista a imprestargli, appunto, un plusvalore storico-antropologico, inimmaginabile al momento della pubblicazione. A rafforzare le ragioni di Baldacci arriva ora un giovanissimo studioso, Alessio Martini, con Storia di un libro, un impeccabile lavoro di stratigrafia, che nella densa premessa mostra già le sue doti: limpidezza, chiarezza argomentativa, conoscenza di prima mano delle fonti, una forte diffidenza per le idee ricevute, quand'anche fossero accreditate da una lunga e autorevole tradizione. Cade così sin da subito il più accreditato luogo comune su Soffici, quello inventato da Renato Serra, e più volte ripetuto con motivazioni diverse, che nel 1914 scriveva: "Soffici non è un'opera né un genere: è un dono". Un giudizio che involgeva, di conseguenza, l'attività critica di Soffici, giuocata "con una bizzarria e sprezzatura di uomo che si può permettere e far perdonare tutto, perché tanto il suo mestiere è un altro". Il commento di Martini è pungente: "Soffici è solo sensazione: e non si parli di psicologia, di echi interiori: lasciamole a Panzini, queste cose difficili! Soprattutto niente intelligenza, niente orchestrazione".
Martini non ha dubbi: il Soffici di Scoperte e massacri (da integrare, oggi, con gli scritti coevi comparsi sulla "Voce") è proprio un critico di complessa e quasi impressionante orchestrazione intellettuale. Altro che "dono": "La sua critica è rivoluzione storiografica. Per primo in Italia Soffici individua la linea maestra dell'arte moderna, la linea che da Manet e Monet arriva a Cézanne per proseguire fino a Picasso; per primo dichiara inderogabilmente fuori dell'arte tutti gli estetismi e i simbolismi dei Chini e dei Bistolfi, tutte le menzogne e truccature dei Tito e degli Zorn. Ma in pochi si sono accorti di questa rivoluzione". E Martini, mentre rileva i debiti del giovane Longhi, non disdegna un primo confronto con Pica, "che non massacra nessuno", e che "scopre in maniera piatta", non distinguendo bene i "veri valori in campo" (per esempio fraintende Cézanne). Martini concorda con Baldacci, che, nel 1976, parlava già di "un grande testamento prodotto, per assurdo, all'inizio di un secolo anziché alla sua fine". E ha alle spalle il Richter della Formazione francese di Ardengo Soffici (1969), dove, quanto a fonti letterarie, molto si scavava. Ma Martini ci rivela per la prima volta una folta ragnatela di riferimenti che conducono all'estetica e alla critica d'arte: leggetevi le pagine su Baudelaire e Laforgue, Denis e Apollinaire.
Soffici, negli anni, resterà consapevole di quella sua personale rivoluzione. In un testo del 1927, ora ristampato in appendice a Sull'orlo dell'abisso, diario 1939-43, notava: "mi accade di sentirmi insegnare da giornalisti e cialtroni, da imboscati e giolittiani, da ignoranti e arruffoni, ai quali vent'anni addietro ho risciacquato un po' il cervello e digrossato il gusto, ho insegnato a pronunziar nomi di artisti nuovi e a distinguere artisticamente il pan dai sassi, mi accade, dico, di sentirmi insegnare come si ama l'Italia, che cosa si deve intendere per arte, che cosa significa tradizione e modernità". È un Soffici consapevole, sì, ma già avviato sulla strada che lo porterà a rescindere, ingenuamente, le responsabilità di Mussolini dall'involuzione del fascismo originario. Siamo ai diari, 21 agosto 1943: "Mussolini aveva avuto e cercato di attuare una idea generosa, grande, eroica, fondamentalmente italiana. L'idea è stata tradita dai suoi, e lui abbattuto, sequestrato". Si sa: non è detto che l'intelligenza critica, anche quella geniale, debba coincidere con quella politica. Ne abbiamo avuto, nei decenni, riprova continua.
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