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BARTHES, ROLAND, Sul cinema, il melangolo, 1994
BARTHES, ROLAND, I segni e gli affetti nel film, Vallecchi, 1995
recensione di Tomasi, D., L'Indice 1995, n. 9
Le riflessioni sul cinema di Roland Barthes non giocano in realtà che un ruolo secondario nella sua opera complessiva. Eppure in esse vive un momento chiave della più generale teoria del cinema degli anni sessanta. Gli anni, cioè, in cui inizia ad affermarsi una specifica disciplina, la semiologia, che prima fra tutte cerca di studiare il cinema in quanto forma di significazione e comunicazione e, di conseguenza, analizzabile con l'ausilio degli strumenti messi a punto dalla linguistica. Riprendendo così il percorso che già era stato avviato dalla filmologia di Cohen Séat la semiotica affronta il cinema attraverso un approccio che vuole essere tanto scientifico da una parte, quanto aperto alla multidisciplinarietà dall'altro.
In "II problema della significazione nel cinema" ( 1960), il primo saggio di una certa organicità che l'autore dedica al cinema, Barthes afferma che "il film è nutrito di segni elaborati e ordinati dal suo autore in vista di un pubblico e partecipa, parzialmente ma incontestabilmente, alla grande funzione comunicante di cui la linguistica non è che la parte più avanzata". Ora, questi segni che costituiscono il film possono, secondo Barthes, essere distinti in due diversi gruppi: quelli in qualche modo già codificati, in cui il rapporto tra significante e significato - i due elementi costitutivi del segno - è per così dire scontato e quelli invece in cui tale rapporto è piuttosto sganciato, staccato, inatteso. È proprio qui che inizia a prodursi l'arte, laddove nel primo caso non c'era che retorica.
I problemi che Barthes si ponce, di cui qui non abbiamo scelto che un esempio, sono così quelli centrali al dibattito semiologico sul cinema, ed essi troveranno un ulteriore approfondimento nel saggio successivo "La ricerca delle unità traumatiche nel cinema" ( 1960), dove l'autore cerca di definire un principio di ricerca ben preciso: la delimitazione, "nel 'continuum' filmico delle unità significanti, analoghe, 'mutatis mutandis', a quelle di una qualunque catena semantica"; il tutto per arrivare a un inventario ragionato dei segni filmici.
Ma ecco che, solo tre anni più tardi, Barthes non riesce a nascondere la sua delusione: "Non sono riuscito a integrare il cinema nella sfera del linguaggio", dichiarerà infatti ai Cahiers du Cin‚ma". Incomincia così a pensare al cinema come a un insieme di grandi unità significanti che corrispondono a significati globali, diffusi e latenti, diversi dai significati isolati e discontinui del linguaggio articolato. Il cinema andrebbe quindi pensato soprattutto a partire dalla sua natura metonimica, sintagmatica, fondata, in sostanza, sul montaggio. Del 1966 è "Principi e scopi dell'analisi strutturale", che possiamo leggere come l'ultimo tentativo semiotico e strutturalista, nel senso forte delle due espressioni, di guardare in modo organico al cinema. Il discorso di Barthes si fa qui più vicino agli orizzonti narratologici e il racconto cinematografico viene visto come "la proiezione di un doppio movimento: da una parte un movimento di distassia, di separazione delle sequenze; dall'altra un movimento di riempimento, di catalisi di queste sequenze".
I successivi interventi di Barthes si faranno più originali, decisamente lontani dalle dominanti del dibattito, strutturalista, semiotico e narratologico. Ne è un evidente esempio "Il terzo senso" (1970) dove, attraverso l'analisi di alcuni fotogrammi di "Ivan il terribile", Barthes propone di aggiungere al livello informativo e a quello simbolico, che insieme ci danno la significazione, il senso ovvio, un terzo livello di senso, quello ottuso, che "eccede la copia del motivo referenziale", che è "'di troppo', come un supplemento che la mia intenzione non riesce bene ad assorbire, ostinato e nello stesso tempo sfuggente, liscio e inafferrabile".
Barthes paragona il senso ottuso a "un invitato che si ostina a trattenersi senza dire nulla laddove la sua presenza non è richiesta", esso non procede nella direzione del senso (come l'isteria), non teatralizza, non indica neppure un altrove del senso (un altro contenuto, aggiunto al senso ovvio), ma lo elude - sovvertendo non il contenuto ma l'intera pratica del senso". Come è evidente, siamo lontani anni luce dai problemi che Barthes si poneva nella prima metà degli anni sessanta: l'illusione di poter ridurre un'opera, film o romanzo che sia, a un ordinato sistema di segni e di fare del segno una semplice giustapposizione di significante e significato è ormai del tutto tramontata.
Due parole, per concludere, sulle diverse caratteristiche dei due libri: quello edito dal Melangolo contiene tutti i testi esplicitamente dedicati al cinema da Barthes ed è preceduto da una breve introduzione di Toffetti. Il volume edito da Vallecchi, invece, si limita sostanzialmente ai saggi "Il problema della significazione nel cinema" e "Le unita traumatiche nel cinema", proposti però in una traduzione diversa - rispetto all'altro volume - e accompagnati dal testo in lingua originale. Questo secondo libro, inoltre, è aperto da un'agile introduzione di Casetti e chiuso da un lungo saggio di Termine che, a quanto ci risulta, è il più ampio e sistematico tentativo italiano di lettura delle riflessioni sul cinema di Roland Barthes.
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