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Imperdibile per chi si nutre di narrativa italiana contemporanea. Troppo cattivo Ferroni con Baricco che con I Barbari ha fatto invece una operazione culturale pregevole. Però la critica a Seta è brillante, se fossi Baricco mi sarei divertita a leggerla. Sottoscrivo Onofri che contesta una certa aurea che aleggia intorno a Niffoi e Erri de Luca e distrugge la Santacroce. Interessantissimo, ricco di spunti, La Porta sul “giallo” nostrano: da rileggere e prendere appunti. Berardinelli parla a Scarpa e dice delle cose che, leggendo i romanzi di Scarpa che precedono Stabat Mater, abbiamo pensato in molti.
Una delusione. Compro il libro fiduciosa nell'autorevolezza del nome che vi leggo sopra, Giulio Ferroni, e non trovo niente che assomigli a critica letteraria. Sembra, piuttosto, di assistere a una puntata di un programma di Maria de Filippi. Ero già rassegnata a una pessima critica da parte di Onofri, il cui unico scopo è quello di guadagnarsi il consenso del pubblico gettando battutine e commenti qualunquisti con arie da grande intellettuale. Ma dall'autorevole Ferroni non mi aspettavo un prodotto simile. Critiche fumose, osservazioni campate per aria, parole tecniche a rivestire ragionamenti vuoti. Nessuna onestà intellettuale, piuttosto un malumore personale, maldestramente celato, nei confronti degli autori presi di mira. Un impiastro, insomma, di accuse, pettegolezzi e offese alla maniera del gossip, mentre la critica seria e onesta viene spedita tristemente a farsi benedire. Capisco che anche loro hanno bisogno di farsi notare e di guadagnare, ma allora che si scelgano un altro campo. E questi sarebbero i "grandi" della critica letteraria italiana. Mah.
libro corto quindi fresco, soprattutto la parte su Baricco é stimolante
Recensioni
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Mi avvicino alla critica letteraria (terreno a me non familiare, dal momento che insegno Teorie e tecniche della comunicazione di massa) con l'umiltà di quelli che Giulio Ferroni definisce "mediocri professori di evanescenti facoltà universitarie" che riconoscono in Walter Benjamin "una sorta di apologeta delle comunicazioni di massa", e con il peccato originale che mi deriva dall'appartenere, come autore, alla folta schiera dei giallisti da mettere "Sul banco dei cattivi" o dietro alla lavagna o comunque alla berlina. E da mediocre professore partirò citando mediocremente Benjamin: "Ogni uomo contemporaneo può avanzare la pretesa di venir filmato. Per intendere questa pretesa basta gettare uno sguardo all'attuale situazione storica dell'attività letteraria. Per secoli, nell'ambito dello scrivere, la situazione era la seguente: che un numero di persone dedite allo scrivere stava di fronte a numerose migliaia di lettori. Verso la fine del secolo scorso, questa situazione si trasformò. Con la crescente espansione della stampa (
) gruppi sempre più cospicui di lettori passarono dalla parte di coloro che scrivono. (
) Il lettore è sempre pronto a diventare autore. In quanto competente di qualcosa". (L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica, 1936; Einaudi 1966).
Benjamin qui non pensava al lettore che si fa recensore e critico e che pubblica le proprie recensioni a beneficio di altri lettori, ma a lui non era dato di conoscere la rivoluzione mediatica determinata da internet (e qui concordo con Baricco quando ci fa immaginare quanto sarebbero state straordinarie le intuizioni di Benjamin se solo fosse sopravvissuto alla tragedia della seconda guerra mondiale). Oggi, lo sappiamo, in qualsiasi libreria on-line o in qualsiasi forum, il lettore può trasformare la propria competenza di lettore in performanza, può farsi autore di quel particolare genere letterario che è la critica. La rete trabocca di recensioni dei lettori, di consigli di lettura, di stroncature senza appello e di dichiarazioni di amore eterno da parte del pubblico ai propri idoli. Ma perché, navigando nel web, assistiamo a una rinascita sotto mutate spoglie di quella critica che proprio i critici di professione danno per morta? Cosa spinge centinaia di migliaia di cittadini a cimentarsi con la recensione? La risposta massmediologica al fenomeno è semplice: se una nuova tecnologia ti offre la possibilità di una partecipazione inedita e a basso costo, perché non sfruttarla? Qui potrebbe aprirsi una di quelle utili ma non originali riflessioni sul rapporto tra internet e democrazia e tra tecnologie e contenuti della comunicazione, ma trovo più interessante aprirmi a un'altra possibilità: e se il dilagare di una critica "dal basso" fosse anche la conseguenza dei molti tradimenti dei critici? È un'ipotesi che, dentro di me, riacquista credibilità ogni volta che mi confronto con un nuovo libro di stroncature che pare confezionato con l'intento di sfruttare un po' di quella notorietà di cui si sono colpevolmente macchiati gli stessi autori che vengono stroncati.
L'occasione questa volta mi viene offerta dal volume di Ferroni, Onofri, La Porta e Berardinelli. Tre dei quattro saggi di cui si compone l'opera fanno percepire tutta la distanza che separa i loro autori dalla letteratura di massa, dal bestseller, dai generi graditi al pubblico, da tutti i libri che superano una certa tiratura e soprattutto dai lettori. A dispetto dell'apparente anti-elitarismo di alcuni loro interventi, La Porta e Onofri tradiscono, come in un tic o in un riflesso condizionato, una sorta di ironico disprezzo per ciò che piace al pubblico. Scrive La Porta: "Non sono un nemico del giallo. Non ho nulla contro la cultura di massa, che soddisfa comunque aspettative e bisogni legittimi, a volte anzi spesso imbarbarendo il proprio pubblico, e altre volte invece migliorandolo". Non so perché, ma quel "Non sono nemico del giallo" mi ricorda tragicamente quell'"Io non sono razzista ma
" sentito pronunciare decine di volte da persone che plaudono alle gesta del leghista Borghezio mentre disinfetta i treni dove sono sedute le ragazze di colore. E in quel "Non ho nulla contro la cultura di massa" non riesco a non vedere il tentativo di chiamarsi fuori dalla massa stessa per giudicarla dall'esterno, come se davvero questo estraniarsi avesse un senso possibile nell'era di internet.
Dal canto suo, Onofri ci avverte allarmato che siamo "in un paese dove anche il primo comico che scrive un romanzo di successo, se intervistato, non si dimenticherà mai di dichiarare che Gadda è il più grande scrittore del Novecento". Ma perché tanto scandalo? Io trovo confortante essere in un paese dove il nome di Gadda non gira solo tra gli addetti ai lavori, dove se un comico cita Gadda in un'intervista lo fa perché sa di parlare decine di migliaia di persone che Gadda lo conoscono o che hanno voglia di conoscerlo. È nei confronti di queste persone che si consuma quello che secondo me è il più grave tradimento dei critici: il tradimento del pubblico, la rinuncia a mediare fra testo e lettore quando il lettore, per il solo fatto di non essersi sottratto alle leggi del mercato editoriale, perde ogni stima da parte del critico. Già più di dieci anni fa, Carla Benedetti, riferendo le opinioni espresse in un convegno da Giulio Ferroni, scriveva: "La letteratura vive ormai una condizione postuma, avendo perso le ragioni della propria legittimazione, della propria azione in un contesto sociale. E se l'esperienza della letteratura si è indebolita, anche il critico letterario, che un tempo aveva la sua funzione nel mediare tra testo e lettore, si trova delegittimato. Tanto più che la promozione editoriale e le sue appendici mass-mediatiche chiedono oggi ben altri mediatori che non il critico letterario con i suoi strumenti rigorosi". (Il tradimento dei critici, Bollati Boringhieri, 2002; il saggio citato era già apparso in "il manifesto" del 1° novembre 1994).
La critica (o meglio, certa critica, odiando io ogni generalizzazione) non è stata "delegittimata", piuttosto ha scelto di non applicare i suoi strumenti rigorosi e adeguati (mi riferisco soprattutto agli strumenti semiotici) in quei campi dove più se ne avvertiva il bisogno; scrive ancora La Porta: "Non riusciamo ad avere un rapporto sano neanche più con la letteratura di massa. La quale dovrebbe soddisfare legittimamente il nostro bisogno di evasione, ma da quando è andata a finire nelle mani di noiosissimi semiologi diventa materia esclusiva per carriere accademiche". L'equazione semplicistica e grossolana "letteratura di massa uguale evasione" determina dei vuoti nell'intervento dei critici e questi vuoti, per fortuna, vengono colmati dai recensori sui giornali (che spesso sono gli stessi critici nel momento in cui abbandonano l'idea di interpretare il mondo per accontentarsi di analizzare un libro) e dai lettori sul web. Se è vero che la maggior parte delle recensioni "fai da te" prescinde dall'uso di strumenti critici, è altresì vero che abbonda di quella "soggettività dell'atto critico" di cui Berardinelli parla a più riprese. Abbandonato a se stesso dai critici (ma, lo ripeto, non dai recensori) nel duro compito di scegliere, all'interno di un insieme che alla critica appare indifferenziato, tra un poliziesco che sveli una realtà sociale complessa (sto pensando alla Marsiglia di Izzo) e una vuota imitazione di schemi alla Agatha Christie, tra un romanzo d'amore con profonde implicazioni psicologiche e una dozzinale riproposizione di Cenerentola, il lettore si attrezza e fa resistenza. Tacciato di ingenuità, di ignoranza o di superbia (guai a citare Gadda se non si è sacerdoti accreditati del culto delle lettere!), il lettore si sottrae allo scherno e diventa mediatore per i propri compagni di avventura, mediatore inter pares con il solo obiettivo di condividere piaceri e delusioni della lettura. Ed è vero che le categorie utilizzate sono spesso un po' rozze (mi piace / non mi piace, mi ha emozionato, l'ho letto d'un fiato, soldi sprecati), ma sono giudizi che rendono conto di come un libro lavora dentro l'animo e dentro la parte più vivace della società dei lettori. Addirittura, spesso è richiesto di riassumere tutto nell'aridità di un voto da 1 a 5, e non solo, come Benedetti paventa, siamo schiavi delle classifiche, ma diventiamo anche sensibili alle pagelle dei nostri lettori: forse non è poi tanto grave. Tiziano Scarpa, in Cos'è questo fracasso? (Einaudi, 2000) parla di critica come di un "collaudo" del libro e sempre Benedetti, concordando con questa visione, commenta: "Per collaudare un libro, un'idea, una scrittura, un'opera d'arte, il primo gesto da fare è quello di rompere il cellophane, estrarre l'oggetto e farlo entrare nel mondo. Ma è proprio questo contatto con il mondo che l'idea dominante di letteratura, alimentata dai critici e dai poteri mediatico-industriali, oggi scoraggia e inibisce. La letteratura di cui si parla e si discute vive idealmente dentro a una cornice, separata dal mondo in cui agiamo, soffriamo, ci appassioniamo e ci indigniamo". (Il tradimento dei critici).
Non so se Carla Benedetti prendesse in considerazione anche il collaudo della letteratura di genere (da giallista conosco la sua avversione per quello che definisce il "realismo thrillerista"), ma forse Scarpa sì. Ricordo di aver fatto assieme a Tiziano Scarpa un collaudo dei suoi libri e dei miei, qualche anno fa, in una cittadina mineraria di nome La Mure, sperduta nelle alpi francesi, un collaudo alla presenza di una cinquantina di persone che ci avevano accolto nel loro circolo, che ci avevano preparato torte e piatti pseudo-italiani, che avevano tolto i nostri libri (in italiano e in francese) dal cellophane e li avevano immersi nel loro mondo; ebbene in molti giudizi dati ai miei libri su internet (e non indirizzati a me, ma ad altri lettori) ritrovo la stessa concretezza di quel collaudo, la stessa immediatezza nelle stroncature, la stessa capacità di far vivere un testo nella quotidianità di vite normali o di seppellirlo definitivamente. Mi rendo conto che siamo lontani dalla grande critica letteraria, ma forse è ora di metterci d'accordo: o noi, autori e lettori di letteratura di massa, troviamo un punto d'incontro con i critici, un punto d'incontro che parta dal rispetto del lavoro reciproco (e soprattutto dell'intelligenza dei lettori), oppure quando le nostre strade si incrociano facciamo finta di non conoscerci.
Alessandro Perissinotto
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