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Studi sul razzismo italiano - Luciano Casali,Alberto Burgio - copertina
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Descrizione


"Tutto è cominciato se si vuole dire così, con la mostra sul razzismo fascista apertasi a Bologna il 27 ottobre 1994." Quella mostra affermava che " è sbagliato confinare il discorso italiano sul razzismo italiano ai soli anni della sua codificazione (1938-43), quando esso divenne ufficialmente razzismo di stato". Da quella mostra nacque l'idea di continuare gli studi e le ricerche e si diede vita al Seminario permanente per la storia del razzismo italiano. Presentano qui i primi risultati e le ipotesi di lavoro: Alberto Burgio, Luciano Casali, Gianluca Gabrielli, Michele Nani, Dario Petrosino e Rossella Ropa.
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Dettagli

1996
1 gennaio 1996
148 p.
9788880914303

Voce della critica


recensione di Pogliano, C., L'Indice 1997, n. 6

Nell'ottobre del 1994 s'inaugurò a Bologna, presso la Biblioteca dell'Archiginnasio, una fortunata mostra di immagini e documenti relativi al razzismo fascista; in seguito a quell'iniziativa si inaugurò un seminario permanente per la storia del razzismo italiano, che ha finora promosso e coordinato un'interessante serie di studi, soprattutto affidati a giovani ricercatori. Il volume raccoglie alcuni risultati di quell'attività, attualmente in espansione, che avrà maggiore eco e impulso grazie a un convegno, programmato per la fine del '97, nel quale competenze e punti di vista diversi si troveranno a confronto sul tema, certamente fra i più impegnativi.
A disegnare i confini di un'area d'indagine che programmaticamente vuol essere tanto complessa quanto innovativa, è Alberto Burgio, uno dei principali animatori del seminario. Presupposto essenziale del lavoro compiuto (e da compiere) appare il seguente, che sia necessario estendere l'analisi del razzismo italiano ben oltre il breve periodo in cui il regime fascista lo codificò elevandolo a dottrina ufficiale; altrimenti detto, che una lunga storia resti da ripercorrere e da scrivere, durante la quale a più livelli e in vari modi il dispositivo "razza" avrebbe agito nel formarsi dell'Italia nazione. Ecco dunque che l'arco di tempo sottoposto a verifica deve almeno includere tutta la vicenda dello Stato unitario, assumendo il 1848 come termine "a quo", per giungere fino alla seconda guerra mondiale. Verrebbe forse da chiedere al seminario qualche futura, utile incursione nel secondo dopoguerra, giacché di mezzo secolo ormai si tratta, e di un'epoca in cui la questione della razza non ha cessato di ripresentarsi, assumendo inoltre aspetti e forme prima sconosciuti.
Ma a che cosa intende riferirsi più precisamente il gruppo di Bologna, quando sceglie d'impiegare un termine così polisemico e ambiguo com'è quello di "razzismo"? Burgio lo definisce rinviando a ideologie connotate da una di queste due procedure logiche: ""a) trascrizione" (non necessariamente consapevole né esplicita) "in chiave naturalistica" di caratteristiche "storicamente determinate" (differenza culturale e/o ineguaglianza sociale) (...) "b) valorizzazione" (ancora una volta non necessariamente consapevole né esplicita) della "diversità naturale"". Si ha razzismo, pertanto, qualora si ritaglino nel "continuum" della specie classificazioni tese a legittimare procedure di esclusione o di subordinazione sulla base di tratti assunti come "naturali", che o non esistono affatto oppure non sono di per sé tali da giustificare alcun giudizio di valore e alcuna discriminazione. Per fare solo un paio d'esempi, l'antisemitismo rientrerebbe nel punto a), mentre al punto b) apparterrebbe il sessismo, ossia la "razzizzazione della donna". Fra le molte opzioni, quella individuata e fatta propria dal seminario sembra lecita e anche condivisibile, purché si aggiunga, a scanso di equivoci, che in Occidente la naturalizzazione dell'elemento storico, ossia l'ostinato sforzo di rintracciare (o inventare) e quindi di perscrutare un oggetto denotabile come "uomo-natura", ha segnato pressappoco dal XVIII secolo la strada maestra attraverso cui le scienze dell'uomo bene o male si sono via via costituite.
Con buon esito l'ipotesi del seminario, metodologica e interpretativa al tempo stesso, guida il saggio di Michele Nani ("Fisiologia sociale e politica della razza latina. Note su alcuni dispositivi di naturalizzazione negli scritti di Angelo Mosso"), teso a rilevare talune significative reazioni che uomini di scienza come Mosso e Michels ebbero quando, verso i primi del secolo, l'orizzonte dell'imperialismo parve trasfigurare o trasvalutare la lotta di classe in guerra di nazioni. Il passaggio è effettivamente cruciale, per tutta quella cultura italiana che lo visse gettandosi definitivamente alle spalle un progetto di egemonia conciliante, spesso pervaso di paternalismo filoproletario o filosocialista, e avviandosi verso ben più muscolose ostentazioni di forza, fino a riparare tronfia o trepida sotto le grandi ali del regime. Ora, Mosso non ci arrivò, morendo nel 1910, ma Michels sì, e schiere d'altri "colti" con lui: già in età giolittiana l'avvicinamento al popolo dell'ultimo quarto d'Ottocento, se mai c'era stato, cambiò meta e itinerario; senz'altro emblematico il percorso del fisiologo torinese allievo e successore di Moleschott, dall'ergografia all'ergomachia per così dire, cioè dal giovanile desiderio di misurare la fatica umana, che guastava intere popolazioni, alla quasi senile esaltazione di una manodopera che per sopravvivere si offre a salari ridotti, spiazzando e indebolendo le organizzazioni dei lavoratori; dall'asserita esigenza di studiare scientificamente i meccanismi di erogazione della forza-lavoro, allo schema "razzizzante" (peccato non ci sia espressione meno barbara per esprimere il concetto) non a caso tracciato poco prima che Mosso, fattosi archeologo, si volgesse a un nostalgico vagheggiare l'antica grandezza di Roma, e a ripescare, più indietro ancora, il mito di una seminale preistoria mediterranea. Di lui, figura per nulla secondaria nel panorama europeo, meriterebbe che Nani ci desse prima o poi quel più ampio ritratto che ancora manca.
Da noi inoltre mancano (o sono appena abbozzati), soprattutto a confronto con la produzione storiografica di altri paesi - Germania e Stati Uniti in primo luogo - molti capitoli riguardanti la moralità pubblica e il comportamento, privato e sociale, dove si siano date pratiche di censura e di emarginazione. È il caso dell'omosessualità, cui nel libro dedica un saggio Dario Petrosino, passando velocemente in rassegna sia i provvedimenti legislativi che in modo più o meno diretto ne decretarono la condanna tra le due guerre, sia l'infame immagine di "traditori della stirpe" che allora prese corpo sulla stampa di regime. Basta sfogliare le annate della "Rassegna di studi sessuali", fondata nel 1921 da Aldo Mieli e da lui diretta fino al 1928, per avere un'idea di quanto vivace fosse stata la discussione in materia, prima che sulla "Sexualwissenschaft" e sul connesso movimento riformatore scendesse la scure del conformismo fascista, aggravata dall'ossequio alla morale cattolica. E non meraviglia, visto il sotteso modello razzista in azione, che con l'accentuarsi della propaganda antisemita verso la fine degli anni trenta agli ebrei venisse anche imputato di diffondere il contagio della "perversione" sessuale.
Quanto all'antisemitismo, gli sono dedicati due saggi del volume. Il primo, di Luciano Casali, prende le mosse dall'episodio di un'impiccagione avvenuta a Russi nell'inverno del '43 per interrogarsi sull'atteggiamento degli italiani di fronte alle leggi razziali del '38, e alle deportazioni perpetrate dalla Repubblica di Salò. Affermata l'impossibilità di un giudizio assoluto circa i rapporti tra fascismo e razzismo, si conclude avanzando l'esigenza di un'analisi differenziata per aree all'interno del territorio nazionale. Il secondo saggio, di Rossella Ropa, si applica invece a ricostruire su documenti d'archivio ciò che accadde quando, nella primavera del '43, fu deciso d'istituire campi di concentramento per il lavoro forzato di ebrei ed ebree, fisicamente idonei, che avessero più di 18 e meno di 36anni. Effettuato un censimento di oltre novemila individui con tali requisiti, soltanto il 25 luglio e la caduta del regime sopraggiunsero a risparmiar loro la privazione della libertà e l'internamento. Assegnare gli ebrei a una "nazione" distinta implicava - osserva Casali in una nota al suo saggio - "ritornare ad una concezione che aveva caratterizzato l'Italia pre-unitaria e gli altri paesi europei fino al XIX secolo"; ma ancor più autorizzava commenti come questo, dell'ineffabile Telesio Interlandi, tratto da un articolo del giugno 1943: "Se una nostra donna si accoppiasse con un inglese, un americano o un bolscevico, si griderebbe (almeno mi piace pensare che si griderebbe) allo scandalo e la disgraziata cadrebbe sotto le sanzioni del tribunale di guerra; ma centinaia e migliaia di ragazze italiane e ariane amoreggiano con i ricchi giudei, sono le loro amiche, o - come si usa dir oggi - fidanzate, procreano con loro meticci".
La mixofobia che ossessionò i tardi cantori dell'arianesimo s'era sviluppata in Italia nel corso dell'avventura coloniale, ma aveva ricevuto sanzione solo all'indomani della proclamazione dell'Impero. Fino allora i meticci riconosciuti dal padre bianco avevano potuto acquisire, non senza dover superare qualche ostacolo, la cittadinanza metropolitana; tutto cambiò a partire dal 1936, quando il regime prese a considerare il meticciato una lesione del prestigio di razza, una minaccia alla sua purezza biologica. Di Gianluca Gabrielli è il saggio ("Prime ricognizioni sui fondamenti teorici della politica fascista contro i meticci") che ha due protagonisti/antagonisti: da un lato il demografo e statistico Corrado Gini, nella cui teoria ciclica della popolazione l'incrocio razziale svolge un'insostituibile funzione generativa ed evolutiva; dall'altro lato l'antropologo Lidio Cipriani che, avendo a lungo viaggiato in Africa, ne trasse la convinzione di un'irrimediabile inferiorità di quelle razze, incentivo e giustificazione alla conquista e al dominio coloniale. Sarà il secondo, com'è facilmente comprensibile, a essere in piena sintonia con la politica razziale dello scorcio di regime, mentre dovrà bene o male adattarsi il primo, emendando le proprie certezze al punto da renderle compatibili con il nuovo corso segregazionista.

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