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Quella ebraica è una storia che ci appartiene ma cui soprattutto noi apparteniamo. E questa verità meravigliosa (nel senso che meraviglia) è lo sfondo della vicenda, tanto vera quanto incredibile, da lei stessa narrata ne «Lo strappo nell'anima». «Quel fondo dell'anima sua è il suolo di un pozzo a secco che inghiotte la luce del sole- sul fondo c'è la questione dell'identità».
Ma la sua apparente tranquillità si spezza una mattina, quando - attraverso il buco di una serratura - scopre che suo figlio Fabrizio si sta pian piano uccidendo con la droga: ci vorranno ancora molti anni di tormento e di domande prima di capire che il dolore del figliolo nasce dallo strappo della sua anima, da quella lontana "chiazza di scolorina". Questa è la storia vera di Stefania, che "brucia lungo la schiena" di chi l'ha scritta: per coloro che leggono, è un colpo allo stomaco. Nasce così l'indimenticabile libro di Elena Loewenthal, "Lo strappo dell'anima": da un incontro casuale all'aeroporto di Fiumicino tra la scrittrice e questa donna in partenza per Gerusalemme, alla ricerca delle sue origini e della sua perduta identità.
16 ottobre 1943. Tutto inizia, o finisce, quella mattina: quando il Dottor H, un ebreo ungherese trapiantato a forza in Italia, cancella con una chiazza di scolorina passato, presente e futuro della sua famiglia. Nell'Italia fascista delle leggi razziali, quando la barbarie ha il sopravvento sull'intelligenza e la pietà umana, una famiglia ebrea scampa miracolosamente ai rastrellamenti ed alla morte certa ad Auschwitz: con un gesto che sa di compromesso, se non addirittura di sconfitta. Bastano poche parole per riassumere codesta vicenda, incredibile ma vera: il Dottor H, medico di fiducia di un gerarca fascista, scopre di essere - insieme a tutta la propria famiglia - nella lista degli ebrei da deportare. Il gerarca consente che si cancelli il suo nome dalla lista: da allora continua la vita, un non vita fatta di sotterfugi, parole mozze che dicono e non dicono. Padre, madre e due bambine si rifugiano in una casa di campagna, lontano dai rumori della guerra, godendo di una certa agiatezza. Continuano i giochi dell'infanzia mentre scoppiano i bombardamenti e la madre, convinta di proteggere le figlie, nasconde loro la verità: "stai ferma, Stefania, aspetta, non guardare!" Quante volte Stefania, protagonista e voce narrante del romanzo, si è chiesta se non sarebbe stato meglio essere insieme agli altri nei treni: morire allora, per non soffrire poi del senso di soffocamento, di vuoto di chi non ha un nome ed una storia da raccontare. A guerra finita, la vita della ragazza apparentemente si normalizza: studia all'Università, apre un negozio di moda, costruisce una famiglia, mette al mondo Fabrizio.
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