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Storia delle prime autostrade italiane (1922-1943)
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2007
1 gennaio 2007
260 p., ill. , Rilegato
9788889909324

Voce della critica

Quando nel settembre 1925 la prima autostrada italiana – la Milano-laghi – venne aperta, era "desolatamente vuota". Quella strada, già allora a pedaggio, dove non passava nessuno, a una sola carreggiata e senza linea di mezzeria, era lo specchio dell'Italia fascista, che generò un enorme sforzo modernizzatore nel settore dei trasporti. In un paese contraddistinto da un insufficiente sistema stradale e da una rete ferroviaria poco funzionale, si suppliva alle carenze puntando sui primati, in modo da nascondere il necessario (che non c'era) e offrire il superfluo, usato come formidabile strumento di propaganda: le autostrade e la velocizzazione ferroviaria rispondevano al bisogno di aumentare il consenso degli italiani attraverso operazioni che oggi si chiamerebbero d'immagine. L'Italia di quegli anni divenne una sorta di vetrina delle novità. Le prime autostrade da un lato e, dall'altro, il non meno sbandierato primato di velocità ferroviaria del luglio 1939, rappresentarono due fiere conquiste.
Sviluppatasi in presenza di una motorizzazione asfittica, la vicenda autostradale italiana dell'epoca può essere letta anche attraverso l'intervento pubblico. È possibile tracciare una parabola delle società concessionarie che da una chiara aspirazione imprenditoriale si concluse, dopo la crisi del 1929, fra le braccia dello stato, che riscatterà i 500 km in esercizio. Il grande piano autostradale studiato nel 1934 dall'Aass, la progenitrice dell'Anas, pur rimanendo sulla carta, costituirà la base del successivo sviluppo dell'epoca del boom economico. Interessante in tal senso il caso della Milano-Torino, con il coinvolgimento dei pesi massimi del mondo industriale italiano (da Agnelli a Pirelli e a Pesenti), che poi si ritroveranno ancora insieme nel secondo dopoguerra al momento di asfaltare il paese.
La storia delle prime autostrade italiane è comunque strettamente legata a un personaggio di grande caratura, che nel libro spicca come protagonista, Piero Puricelli, con un ruolo decisivo, su scala nazionale e internazionale, per tutto il ventennio. Ingegnere, ma anche imprenditore visionario e spregiudicato, autore di una serie innumerevole di progetti autostradali (dal progetto della Milano-laghi nel 1922, al disegno di una rete europea nel 1934), Puricelli era portatore di una cultura nazionalista e di ricche competenze tecniche. Nel fascismo si rispecchiava a suo agio, offrendogli, a pagamento, velleitari ma non insensati programmi di sviluppo stradale.
In definitiva, il capitolo autostradale italiano fu pieno di chiaroscuri. Si trattò indiscutibilmente di un'esperienza pilota, di cui Moraglio coglie la piena validità, gravata però da una fatale incoerenza tra le differenti iniziative, frammentarie e disorganiche, e dall'assenza di una valutazione di ogni opportunità economica e funzionale. Non si riuscì mai a superare la contraddizione tra i privati, che esprimevano soprattutto esigenze locali di breve respiro, e lo stato, dal quale non proveniva un concreto progetto d'insieme. Occorre riflettere però in che misura, probabilmente ampia come suggerisce lo stesso Moraglio, l'esperienza degli anni venti e trenta contribuì a preparare la svolta autostradale del secondo dopoguerra, anticipando la nuova idea di trasporto individuale. Andrea Giuntini

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