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Storia della borghesia italiana. L'età liberale (1961-1922) - Alberto Mario Banti - copertina
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Storia della borghesia italiana. L'età liberale (1961-1922)
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Storia della borghesia italiana. L'età liberale (1961-1922) - Alberto Mario Banti - copertina
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Descrizione


Al momento dell'Unità, al termine delle lotte del Risorgimento, lo Stato nuovo si modella, almeno in apparenza, su una società che sembra aver superato ogni divisione di ceto. Dal punto di vista legale, non vi sono privilegi, non vi sono ordini, non vi sono ranghi. E tuttavia permangono profonde le disuguaglianze tra i cittadini. Disuguaglianze di ricchezza, di cultura, di potere politico. Ma come dare visibilità e spessore a queste differenze? La storia delle borghesie italiane di età liberale è segnata da incessanti strategie della distinzione, che solcano il campo sociale in tutte le direzioni: distinguono gli universi borghesi dal mondo mitizzato o temuto delle classi popolari; ma, contemporaneamente, dividono quegli stessi universi in un vertiginoso caleidoscopio di appartenenze territoriali, socio-professionali, ideologiche, politiche. Localismo, particolarismo, pratiche clientelari sembrano esserne i tratti dominanti. Gli interessi e gli orientamenti dei proprietari, dei professionisti o degli industriali sono diversissimi, talvolta conflittuali, spesso addirittura inconciliabili. E nondimeno, c'è qualcosa che dà coerenza alle varie appartenenze. Una serie di miti, simboli, convinzioni ideologiche che si stratificano lentamente e - piuttosto inaspettatamente - si incontrano (ai primi del Novecento) col termine borghesia. Da questi materiali nasce una rinnovata identità socio-politica della borghesia italiana. Negli anni drammatici del primo dopoguerra, il complesso insieme di immagini ideali, da cui essa trae vitalità e forza, si incontrerà e si confonderà con la retorica politica del radicalismo fascista.

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Dettagli

1996
12 settembre 1996
416 p., Rilegato
9788879891707

Voce della critica


recensione di Ramella, F., L'Indice 1996, n.10

Più che descrivere il processo di formazione della borghesia italiana nell'età liberale, questo lavoro si propone di analizzare come e perché essa non si formò. La tesi, infatti, è che tra Unità e fascismo non emersero nelle élite (la "zona alta" della società dell'epoca, i nobili, i proprietari terrieri, i liberi professionisti e i funzionari, gli imprenditori dell'industria) forme di identificazione collettiva in grado di portare i singoli e dispersi soggetti sociali a superare le forti differenziazioni che li segmentavano e a "sentirsi parte di una astratta comunità sociale che li trascendesse e li trasfigurasse". La storia delle élite diventa così la storia della loro endemica e pervicace incapacità di "farsi" borghesia, di uscire dalla gabbia di ostinate logiche di identità e di appartenenza territoriale e di gruppo socio-professionale. E quindi di maturare una piena identità di classe dirigente nazionale, candidandosi per questa via a svolgere un ruolo autonomo e unitario sulla scena della nuova Italia.
Un partito politico che ne sia l'espressione non nascerà a causa delle persistenti e sempre risorgenti fratture interne. Al termine della lunga vicenda e in un contesto segnato prima da un nazionalismo aggressivo e poi da acutissime tensioni sociali, ampi settori delle élite daranno la propria adesione al fascismo, che offrirà loro un codice di identificazione nazional-patriottico. Questo incontro rappresenterà la conclusione sostanzialmente coerente di un percorso in cui i riferimenti rituali a immagini retoriche, simboli e miti si erano coniugati con una tenace difesa di interessi locali e settoriali.
Va detto che il libro - che organizza una grande varietà di materiali in una sintesi spesso efficace di storia politico-sociale dei primi sessant'anni dell'Italia post-unitaria - non è immune dal rischio di essere discusso come parte dell'annosa e mai definitivamente risolta disputa se siano stati (in età liberale, ma anche dopo, naturalmente) più i vizi o più le virtù della borghesia italiana (questione assai delicata, come è noto, su cui comunque chi scrive ci tiene a far sapere di non aver mai avuto il minimo dubbio). Ma, per il suo impianto e le sue ambizioni, questa ricerca è tutt'altro che un nuovo saggio sulla "debolezza" della borghesia. La lacuna che l'autore vuole contribuire a colmare è l'analisi delle sue pratiche sociali e della sua cultura politica.
La tesi dell'autore è che all'origine della propensione al localismo e al particolarismo nelle élite vi è la straordinaria frammentazione sociale, o meglio socio-territoriale, che le caratterizza. Questa frammentazione è un loro tratto distintivo evidente soprattutto nei primi decenni post-unitari: le classi dirigenti ci vengono descritte dall'autore in questa fase come una nebulosa formata da innumerevoli segmenti sociali, chiusi in se stessi, rigidamente separati gli uni dagli altri, non comunicanti.
Relazioni sociali centrate sull'area di residenza, forme di sociabilità esclusive e di piccola cerchia sociale, associazionismo economico e professionale a base rigorosamente locale e resistente all'inserimento in reti nazionali: sono tutti fenomeni, nell'interpretazione dell'autore, che riflettono e nel contempo producono vuoti di relazione e di comunicazione all'interno del mosaico delle élite, fatto di tanti piccoli mondi che si ignorano e si respingono.
Le informazioni fornite sui diversi gruppi sono molto ricche e costituiscono una delle parti più stimolanti del lavoro. Un aspetto che colpisce è la grande eterogeneità di provenienze di chi entra a farvi parte. Abbiamo cioè a che fare con aggregati sociali la cui caratteristica di fondo non è di riprodursi sulla base della ereditarietà: il reclutamento dei membri avviene in buona parte dall'esterno. L'élite terriera, il vero nucleo centrale delle classi dirigenti dell'Italia liberale, cresce in base agli apporti più disparati: dal mondo dell'industria e del commercio (la seta soprattutto), dalle professioni liberali, dalla pubblica amministrazione, dall'esercito. I gruppi delle professioni "colte", a loro volta, si sviluppano allo stesso modo. Quanto agli imprenditori dell'industria di fine secolo, infine, le loro origini sociali spesso sono molto modeste.
I l profilo delle élite dell'età liberale che ne risulta è dunque quello, inatteso, di un universo relativamente fluido attraversato continuamente da flussi di persone che stabiliscono nessi e contatti tra gruppi e ambienti sociali diversi, in certi casi anche molto distanti tra di loro. Ma c'è di più: nelle numerose biografie di imprenditori industriali vi sono tracce diffuse di relazioni intrecciate nelle più avanzate regioni industriali europee.
Che cosa se ne può concludere? Sembra esserci più mobilità e apertura nel mondo delle élite, che non isolamento e chiusura. Ma il vero problema è che mobilità e apertura non sono in contraddizione con l'emergere di logiche di identità e di appartenenza di gruppo e localistiche. Tutto ciò può apparire paradossale in realtà solo se si fa riferimento a un modello evoluzionista della formazione dello Stato nazionale, che postula la progressiva estinzione delle differenze locali precedenti, che sono viste come residui. Ma quanto serve questo modello in un caso come quello italiano, in cui la nascita dello Stato non comporta l'eliminazione di poli alternativi di lealtà e di potere e in cui coesistono, senza che si creino le condizioni perché si integrino, forme diverse di organizzazione economica e sociale? Certo, se lo si accetta anche solo implicitamente, allora non resta che cercare l'origine della persistenza dei localismi nelle resistenze "culturali", più o meno collegate ai ritardi della modernizzazione economica.
L'autore vede nelle "strategie della distinzione", che qualificano la vita associativa dei circoli della buona società urbana, un segno della "separazione sociale". Cerchie, più o meno ristrette, di membri delle élite si impegnano attivamente, seppure, come risulta, inutilmente, a tracciare barriere intorno ai loro club. Ma se consideriamo questi tentativi di delimitazione incessante di confini ("mobili nello spazio e nel tempo", come viene detto) nel contesto della circolazione continua di personale, essi vengono ad assumere un significato diverso. È la mobilità, il contatto, l'informazione, e non la loro assenza, ad alimentare le logiche di appartenenza di gruppo; la stessa prospettiva può valere per quelle localistiche. Come dire che sono l'interazione e l'interdipendenza crescenti, collegate ai processi economici e politici, a riprodurle. Quale ruolo gioca il fatto che queste dinamiche si sviluppino nel quadro del nuovo Stato unitario?
Una direzione di ricerca suggerita dalla lettura del libro è di considerare alcune implicazioni del peculiare sviluppo economico ottocentesco di un paese periferico come l'Italia. Le sue opportunità di crescita sono definite da un contesto internazionalmente dominato dalle grandi potenze industriali. Una delle strade attraverso cui si aprono prospettive e spazi è rappresentata dallo sviluppo di quelle economie, a base locale, che sfruttano nicchie di mercato lasciate libere. Le cose si complicheranno con l'articolarsi di una base industriale al volgere del secolo, ma sarà l'impulso alle economie locali e non la loro progressiva trasformazione in altrettanti rami specializzati di settori nazionali il dato caratterizzante dello sviluppo italiano. Ne deriverà tra l'altro che i contrasti non saranno solo tra comparti, tra grande e piccola industria (e tra industria e agricoltura), ma anche tra sistemi economici locali che si confrontano sui mercati regionali e nazionale.
Che dunque nella difesa e nell'affermazione di interessi che hanno una base eminentemente locale, in un contesto in cui le scelte del potere politico a livello centrale e periferico hanno grande peso, vengano evocate e enfatizzate le appartenenze territoriali non stupisce. Una chiave della vitalità dell'associazionismo economico sta qui. Nel contempo (e non è un aspetto secondario) risulta evidente l'uso strumentale che ne viene fatto. Le élite sono in prima fila nella costruzione sociale di forme di identificazione che sono potenti strumenti di mobilitazione e di pressione, ma anche servono a contrastare spaccature di classe in loco. È in questo quadro che si potrebbe capire meglio perché, a seconda delle situazioni, l'idioma localistico cede il posto ad altri idiomi, che con le appartenenze territoriali non hanno niente a che fare, come avviene ad esempio nella battaglia protezionista prima e nel duro confronto con la minacciosa conflittualità sindacale poi, che l'autore giustamente considera essere fattori propulsivi importanti ai fini della costituzione di organizzazioni economiche nazionali. Il punto è, in ogni caso, che i diversi idiomi usati non si escludono a vicenda. La scelta dell'uno o dell'altro, l'enfasi da porre sull'appartenenza territoriale o su quella di classe, dipende dal contesto, dalle forze e dagli interessi in campo. Per questo tra le élite il gioco delle solidarietà e dei conflitti è complesso, in un alternarsi di usi di idiomi, locali e sovra-locali, che tiene conto anche dell'ingresso nell'arena di altri soggetti sociali e politici.
La rilevanza delle basi locali del potere e delle risorse è all'origine anche dell'orientamento delle élite politiche. In questa prospettiva si può dire che il sistema politico si regge sulla capacità di mediare tra diverse appartenenze, tra diverse realtà economiche e sociali, tra differenze: da queste - e non dal loro superamento - deriva la sua forza. La sua crisi, che concorrerà a spianare la strada al fascismo, dipenderà anche dal venir meno di questa sua capacità di mediazione: il punto è nella mediazione che non riesce più a funzionare, non nelle differenze che persistono, le quali infatti consentivano a quel sistema politico di esistere e di riprodursi.


recensione di Tranfaglia, N., L'Indice 1996, n.10

Negli ultimi due decenni, leggendo saggi e ricerche sulla storia d'Italia prima e dopo l'unità, capitava di frequente di trovare accenni alle "borghesie" piuttosto che alla "borghesia" italiana. Non avveniva a caso giacché così molti studiosi esprimevano l'insoddisfazione di fronte a un termine che da una parte rinviava alla tripartizione classica usata da Marx per la società ottocentesca, dall'altra metteva insieme ceti e personaggi che apparivano assai poco omogenei e analizzabili all'interno di un unico contenitore.
Ma - occorre pur dirlo - il plurale usato negli anni scorsi non risolveva il problema n‚ dal punto di vista definitorio n‚ da quello più propriamente storico: serviva soprattutto a dissociarsi dalle semplificazioni in uso qualche tempo prima e a rinviare il momento di confronto serrato sui termini e sui concetti.
Nella sua "Storia della borghesia italiana. L'età liberale", Alberto M. Banti ha, tra gli altri, il merito di prendere per le corna il problema e di proporre una distinzione peraltro problematica che mette insieme i nobili, i proprietari terrieri, i liberi professionisti e i funzionari, gli imprenditori.
Subito dopo, l'autore chiarisce che vuol studiare di questa nascente borghesia, dopo la fine della società cetuale, le pratiche sociali e le immagini culturali. In altri termini, come i borghesi si comportano, si organizzano, confliggono e trovano accordi fra di loro; e nello stesso tempo quali immagini della borghesia si costruiscono. Ancora le pratiche e le rappresentazioni politiche dei borghesi italiani.
L'obiettivo è alto e impervio. Lo si può constatare leggendo le quattrocento pagine e i dodici capitoli che compongono questo primo volume (un altro ne seguirà) della grande saga borhese.
Banti, nel suo meritorio tentativo di sintesi (mi conforta vedere storici delle nuove generazioni affrontare il terreno della ricostruzione complessiva a lungo disertato dalla nostra accademia, preoccupata di solito più dei giudizi dei colleghi che di quelli della maggioranza dei lettori), deve maneggiare biografie di imprenditori e di professionisti che sono di frequente scritti d'occasione o commemorazioni e non restituiscono appieno, per inesattezze ed errori, la vita e le imprese dei personaggi cui si riferiscono.
L'autore è sempre molto attento a non cadere nelle trappole che un simile materiale gli tende ma l'assenza di biografie critiche per troppi tra i nostri industriali, ad esempio, toglie alla sintesi particolari e aspetti che avrebbero potuto insaporire di più la sintesi.
Un'altra difficoltà di fronte a cui si trova di necessità lo studioso è costituita dal confronto tra le pratiche politiche e sociali di quello che potremmo definire il grande contenitore dei ceti borghesi e l'interpretazione complessiva della storia italiana.
Dal libro di Banti emerge, senza alcun dubbio, un giudizio assai critico nei confronti di quei ceti che di fronte ai problemi evidenti che seguono alla costituzione dello Stato unitario e poi al suo difficile inserimento tra le potenze europee e quindi al suo sviluppo industriale faticano molto a trovare una propria identità adeguata al superamento dell'ancien régime e oscillano tra tentazioni reazionarie e retoriche patriottarde con l'occhio volto più al passato che alle sfide del presente fino a cadere senza un'effettiva resistenza nelle braccia del maestro di Predappio.
È difficile contestare che le cose siano andate a un dipresso così come appare dall'esposizione di Banti, ma non sempre nella sintesi, se non ho letto male, emerge con chiarezza quale sia stato l'apporto di altri ceti sociali, di altre forze economiche nel processo storico che porta dall'Unità al fascismo e questo anche perché su quei ceti e su quelle forze abbiamo una produzione storiografica che si è concentrata assai più sulle idee che sui comportamenti sociali e politici. Il che non si può certo addebitare all'autore di questo bel libro, ma contribuisce di fatto a rendere più difficile il lavoro di sintesi e alcune delle conclusioni che si possono trarre. Un'ultima annotazione. La scrittura di Banti si segnala per chiarezza e piacevolezza e fa sì che le quattrocento pagine del libro si leggano senza fatica e senza perdersi nella grande ricchezza di riferimenti che pure ci sono nel testo e nelle note di questa ambiziosa storia di una sfuggente borghesia nazionale.

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