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Il capolavoro assoluto della vasta opera filosofica e storica del Croce da proporre in lettura alle nuove generazioni come impulso a costruire una storia senza violenza. Si legge in questo libro : … la violenza non è forza ma debolezza, né mai può essere creatrice di cosa alcuna ma soltanto distruggitrice ...
Bisognerebbe perdere una vita a studiare ogni sforzo e ogni possibilità di entrare in questa instabile scacchiera dai pedoni sfuggenti che è la storiografia, materia spesso imprendibile, scivolosa, insidiosissima, dove troppe discipline fanno a gara per rivendicarne l'identità. Ma credo che questo sia il libro, fra quelli letti, in assoluto più prossimo a una completezza sul tema, a una vera vicinanza fra umanesimo e spinta morale, al cogito e alla passione a cui "la storiografia dà l'intelletto, e nell'atto stesso la passione si converte in risoluzione e azione". Non ci si può solo muovere fra ordinarie caselle di fatti o cronache puntali da ordinare nelle loro sequenze, perchè "tra le due cose c'è tanta diversità quanta tra l'allineare le parole nei vocabolari e creare una poesia". Storiografia vuol dire umanesimo profondo e viaggio nello spirito fatto anzitutto con "comprensione e intelligenza", ma senza risparmiare il Dio intuito, quel percepire un afrore di lotta sottostante, di equilibri scricchiolanti, di febbri intense sotto una stasi apparente. Dunque un tornare all'adesso e al centro di un'idea mai stantia, e cioè di una storia che "è sempre contemporanea", poiché fatti anche remotissimi riescono a propagarsi fin nel presente più caldo: Tutta la cultura storica sta in rapporto al generale bisogno di mantenere e accrescere la vita civile e a attiva dell'umana società; e quando tale impulso è scarso la cultura storica è minima". Via le astrazioni, via i Se e via sentenze e previsioni, serve il connubio più alto fra filosofia, storia, logica e intuizione, ma tutto come mosso dall'ingrediente più prezioso, quello che Croce chiama "il dio agitante", la Poesia. Immersi nel Passato, non c'è che il pensiero come uscita esemplare. Convertirlo in conoscenza, in nuova azione e vita. Questa è la storiografia: il principio morale nel ventre del conflitto, il "comprendere indagando" per citare Droysen.Conoscere l'uomo anzitutto, e trarre le vere cifre della sua libertà.
Recensioni
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Contrariamente all'opinione che si è poi comprensibilmente diffusa, La Storia d'Italia dal 1871 al 1915 di Benedetto Croce, pubblicata all'inizio del 1928, a trasformazione ormai ultimata del regno d'Italia in stato fascista, non era stata un'immediata replica liberale alla nazionalistica Italia in cammino di Gioacchino Volpe (1927), ma aveva portato a termine un progetto concepito da tempo. La contrapposizione con Volpe divenne tuttavia un fatto e addirittura il luogo d'origine della storiografia contemporaneistica italiana.
Già nel 1922, ad ogni buon conto, Croce, in contrasto con la tesi che scorgeva nella guerra e poi nel fascismo il capolinea di un millenario cammino italiano, aveva sostenuto che la storia d'Italia aveva avuto inizio "solo dal tempo in cui sorge uno Stato italiano, ossia dall'anno 1860" e che la storia d'Italia era la storia, recentissima, dell'Italia unita. Si potevano al più individuare i presupposti dell'Italia in formazione nella fase aurorale in cui le ristrette élites nazionali si prodigavano in vista dell'unificazione, fase collocabile tra gli ultimissimi anni del Settecento - il triennio repubblicano - e i primi sessant'anni dell'Ottocento. Nel libro del 1928 Croce fu ancora più estremo nel tener fede a questo convincimento e fece partire la narrazione storiografica dall'abbattimento dello stato della Chiesa e in particolare dalla proclamazione di Roma capitale (1871). Era comunque giunta a piena maturità la grande stagione del Croce storico, che aveva già prodotto la Storia del Regno di Napoli e la Storia dell'età barocca in Italia, e che nel 1932 si concluderà con la Storia d'Europa nel secolo decimonono.
Proprio contestualmente alla stesura della Storia d'Italia e della Storia d'Europa, d'altra parte, il pensiero crociano aveva colto nella democrazia - in precedenza definita un massificante "smarrirsi nel numero" - il punto d'arrivo della religione della libertà. L'avvento del fascismo aveva cioè svolto per Croce un ufficio assimilabile, mutatis mutandis, all'approdo in America di Tocqueville. Il liberalismo senza la democrazia rischiava insomma di restare vuoto, e la democrazia senza il liberalismo rischiava di diventare cieca. Croce, inoltre, dopo la grande riflessione teorica e "sistematica" del primo quindicennio del secolo (sino dunque a Teoria e storia della storiografia, scritta nel 1912-13 ), aveva anche incontrato, attraversandone le empiriche strettoie, e al di là della sempre formidabile erudizione, il mestiere dello storico. Come, dunque, la "rivelazione" fascista aveva rudemente mostrato che il liberalismo, rinunciando non senza qualche ovvia nostalgia all'ormai tramontato tragitto oligarchico, attendeva di essere inverato e insieme scavalcato dall'ineludibile tappa democratica, così la ricerca storiografica, sontuosamente praticata, laicizzava la filosofia e ne ammorbidiva le rigidezze "sistematiche".
La storia come pensiero e come azione, ultimo volume al momento uscito nella benemerita Edizione nazionale delle opere (cfr. "L'Indice", 2002, n. 6), costituisce, nel 1938, consapevolmente ed esplicitamente, la presa d'atto teorica delle nuove riflessioni e dei nuovi compiti che gli snodi storico-politici e la pratica storiografica avevano imposto. In ogni giudizio storico, infatti, si può ravvisare un bisogno pratico che conferisce a ogni storia il carattere di "storia contemporanea". Perché "per remoti e remotissimi che sembrino cronologicamente i fatti che vi entrano, essa è, in realtà, storia sempre riferita al bisogno e alla situazione presente, nella quale quei fatti propagano le loro vibrazioni". Nel presente si racchiude insomma il motore dell'intenzionalità che sospinge a cercare nel passato il "senso" del percorso che si situa alle spalle di chi, praticando la storiografia, trova la storia. La condizione dell'"anima" dello storico, così scrive Croce, è essa stessa "materia", ed è quindi il "documento del giudizio storico", il "vivente documento" che lo storico porta in se stesso. È una questione che non può essere aggirata, questa. Ed è posta con una chiarezza prima sconosciuta. Ma è anche un'implicita e indiretta "confessione". Spiega infatti ai lettori più avvertiti che è stata l'esistenza storica del fascismo, e l'età delle tirannidi apertasi dopo la Grande guerra, a sollecitare l'impostazione, e lo straordinario disegno storiografico, della Storia d'Italia e della Storia d'Europa.
Come contrappeso alla soggettività calata nel presente, una centralità decisiva, al di fuori della non più assolutizzata e anzi criticata logica storica, assumono ora i documenti, i fatti, le res gestae. La critica al determinismo, alla previsione, e allo stesso concetto di causa, che Croce effettua avendo come idolo polemico ancora il naturalismo e il positivismo, non può non sfiorare, ormai, lo stesso storicismo assoluto. Dalla bella nota al testo di Sasso apprendiamo del resto che Croce, nella fase di stesura dell'opera, si era cimentato addirittura nella lettura di Taine. Certo, la storia resta storia di quella libertà che non è solo il principio esplicativo del corso storico, ma anche l'ideale morale dell'umanità. Croce non rinnega dunque se stesso. E si batte di nuovo contro la teoria - da lui definita "razionalismo astratto" o "illuminismo" - che considera la realtà divisa in "soprastoria e storia", ovverosia in un mondo di valori e in un basso mondo al quale converrà una buona volta imporre tali valori, facendo succedere alla storia imperfetta un realtà razionale e perfetta. Tutto ciò che è reale parrebbe dunque essere sempre razionale. Eppure, la critica dell'illuminismo, che a noi, oggi, può soprattutto parere una denuncia "conservatrice" del carattere ineluttabilmente "utopistico" delle riforme - non abbiamo forse imparato da Franco Venturi che l'utopia e le riforme sono tra loro contigue? -, suona anche, nel contesto del 1938, come una denuncia dell'ottimismo metafisico e del panlogismo, così come dello storicismo di Meinecke (e persino di Ranke), storicismo che precipita, secondo Croce, nell'irrazionalismo individualizzante. Lo storicismo, infatti, per Croce, o è più razionale del cosiddetto "illuminismo", o non è. A settantadue anni suonati, e con dinanzi ancora quattordici anni di vita intellettuale prodigiosamente operosa, Croce, fedele a se stesso, va, in rebus ipsis, oltre se stesso.
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