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Recensioni Le statue d'acqua

Le statue d'acqua di Fleur Jaeggy
Recensioni: 3/5
In un sotterraneo di Amsterdam vive un solitario, Beeklam, circondato da statue. Conversa con loro, evoca ricordi, perde «il controllo delle ore e della vita», esce di rado, per lo più di notte. È uno di «coloro che sono nati persi e debuttano dalla loro fine». Ha lasciato presto il padre, per andare «a comperare statue». In lui, infanzia e vecchiaia si confondono. Una precoce percezione dell'effimero sembra avergli impedito, da sempre, di credere che le cose possano avere una ragione. La sua sola attività è una perenne, silenziosa cerimonia dedicata agli assenti. L'austero domestico che abita con lui, le statue stesse, l'acqua frusciante che lo chiama, dietro le pareti: sono le comparse di un teatro d'ombre dove il vuoto si veste sontuosamente di ogni apparenza. Verso Victor, suo domestico, e Lampe, che era stato domestico del padre, Beeklam sente un'oscura affinità. Ciò che li unisce è almeno la «vocazione del ricordo» e il perverso piacere della rinuncia. Su ciascuno di loro grava una sorta di eccentricità metafisica, ciascuno conserva qualcosa dell'innocenza – e del furore – che è delle persone totalmente sole. E un giorno Beeklam abbandonerà le statue e i sotterranei, emergendone «come nelle fiabe, carico di anni». Lo ritroveremo in un padiglione vicino a una scogliera che attira i naufragi. Lì, quasi in una bo¨ckliniana «isola dei morti», abita Katrin, a cui il tempo ha appena cominciato a rosicchiare le guance infantili. In lei riconosciamo il Doppio femminile di Beeklam. Nella casa di Katrin, e nella sua mente, visitata ancora da incubi di refettori e convitti, si respira un'aria simile a quella in cui erano immerse le statue. I sotterranei di Beeklam si sono ora rovesciati, sotto un cielo sterminato, in un luogo ibrido che appartiene insieme a un mondo parallelo, al sogno e al regno dei morti. Questo libro è innanzitutto il suo stile. Proprio perché sul fondo vi si avverte una sottile diffidenza verso la parola, le parole vivono qui una vita selvatica e asociale, come gli esseri di cui raccontano. Qui, secondo l'indicazione di Gottfried Benn, «ogni frase deve riposare, tremare, tacere, richiudersi». Un desolato laconismo fa affiorare e dileguare in poche righe ritratti, luoghi, voci, schegge acuminate di storie. E la continua dissociazione, l'ossessività dei fantasmi, l'ironia avvolgente e la disperata euforia del tutto sono tracce di quell'immaginazione vagabonda che ha avuto la sua nascita simbolica con il "Lenz" di Bu¨chner. )
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