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Al crepuscolo di una dittatura, il vecchio tiranno mette in scena un suo Re Lear .
Nell’inverno 1952 Stalin è un vecchio dittatore barricato nella propria dacia, sorvegliata giorno e notte da un corpo di guardia di milleduecento uomini. Tormentato dal presentimento della morte, paralizzato dal potere, Stalin si sente spiato, subodora ovunque il complotto e, come re Lear, si crede circondato da traditori e cospiratori. Un giorno il dittatore fa portare nelle stanze tutte uguali della sua fortezza un vecchio attore ebreo, Icik Sager, che ha ancora indosso i panni di quello stesso re Lear che ogni sera impersona sulle scene di un teatro moscovita. Impaurito e ignaro, l’attore viene immediatamente coinvolto in una serrata discussione su re Lear: quasi che Stalin, ossessionato dalla paura di perdere il potere, voglia utilizzare il personaggio shakespeariano per definire se stesso, per ripercorrere la propria vicenda, in un complesso rapporto di identificazione con quella figura letteraria. L’attore trova la forza di rifiutare questa identificazione come estranea alla tragedia, ma viene sospinto nel ruolo del Matto, di colui che può e deve dire la verità, in un gioco sempre piú teso e incalzante tra vittima e carnefice. Le parti sono chiare: il Matto svolge il suo ruolo di accusatore, chiamando con il loro nome i delitti del despota; Lear-Stalin replica alternando lusinghe, lamenti, minacce. Il lettore-spettatore si ritroverà a fare i conti con un personaggio drammatico che va ben oltre i tratti convenzionali del despota cinico e sanguinario, e sembra piuttosto incarnare le contraddizioni, le ambiguità, le violenze della nostra epoca e le capacità della tragedia di darne una compiuta interpretazione.
scheda di Favetto, G.L., L'Indice 1988, n. 7
Due uomini che hanno vissuto, ciascuno a suo modo da congiurati, soltanto per ritrovarsi alla fine insieme in una dacia a trentadue chilometri da Mosca, tra l'ultimo squarcio del 1952 e l'inizio del 1953: Josif Stalin, istrione e potente della terra, e Icik Sager, attore professionista appena prelevato dal Teatro degli Artisti con indosso ancora il costume di scena, stan qui, nei cinque atti che il quarantasettenne cileno Gaston Salvatore ha scritto in tedesco tre anni or sono, come fossero in una seduta di autocoscienza. Parlano uno contro l'altro, attaccano e si difendono. Lo zar rosso è il carnefice, ma non solo; il disorientato ebreo è la vittima designata, ma non del tutto. Attraverso le battute del "Lear" di Shakespeare; si scandagliano a vicenda. Giocano di paura e di orrore, come stessero tirando di spada e di pistola. Il riassuntino-sommario? È presto fatto. Leggiamo a pagina 24, Stalin: "Due vecchi recitano Lear, perché uno di loro non riesce a dormire la notte. Che c'è di male? Lei diceva che ogni attore al termine della carriera vuole recitare "Lear" almeno una volta. Se lei è Lear, perché non posso esserlo io?". La Morte aleggia palpabile sin dall'inizio, arriva alla fine e colpisce indirettamente Sager. La Paura è sovrana e tiranneggia anche Stalin. Sembra che i due si siano ritirati nelle pagine di Salvatore perché quello è il luogo in cui più piace loro aver paura.
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