«Vorrei dire che questo è un libro bello come un film» scrive Gianni Mura nella prefazione «ma sono troppo tifoso dei libri per dirlo».
«Ferenc Puskás è il simbolo di una generazione unica e magica, che ha prodotto forse il miglior calcio di sempre, poi è improvvisamente scomparsa, lasciandoci una tremenda nostalgia, un indimenticabile ricordo e nessun erede.» – Federico Buffa e Carlo Pizzigoni, il Venerdì di Repubblica
Ha nove anni Gábor quando segue il padre allo stadio, a Budapest, anche se non c’è nessuna partita da vedere. Non ci sono nemmeno gli spalti, solo un prato sconnesso e imbiancato dalla calce, e un esercito di volontari che hanno risposto all’appello del Partito. Sono lì per posare le pietre del nuovo Népstadion, che ospiterà le evoluzioni di Puskás, Bozsik, Hidegkuti, Kocsis, Czibor e degli altri formidabili giocolieri dell’Aranycsapat, la nazionale magiara che umiliò due volte i maestri inglesi. La «squadra d’oro» che subì una sola sconfitta in cinquanta partite, peccato che fosse la più attesa: la finale della Coppa Rimet del 1954. Non ci sarà una seconda occasione, perché di lì a due anni la Rivoluzione ungherese, repressa dai carri armati sovietici, finirà per spezzare quella squadra di campioni senza eredi. In un libro che è «una serie di storie nella Storia», Bolognini riannoda i fili che legano le sorti della Grande Ungheria alle sanguinose giornate di Budapest, seguendole con gli occhi candidi di Gábor, che trepida davanti alla radio per «il sacco di Wembley» e poi scende in strada con il proprio popolo per la libertà. Sentendosi anche lui, per un momento, come Nemecsek della via Pál, «piccolo soldato avventuroso che sembrava aver rinnegato la causa e invece era stato il più fedele» di tutti. Forse Gáboravrà tradito il Partito, ma non i suoi sogni. )
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