La sposa è un libro importante nel percorso di Mauro Covacich. Dopo un decennio dedicato a ragionare su un solo tema, fondamentale per la letteratura, nella Pentalogia delle stelle, da A perdifiato (Einaudi, 2005) a A nome tuo (Einaudi, 2011), la sua narrativa viveva necessariamente un punto di crisi: crisi come nuova apertura, come necessità di rinnovamento, come bisogno di voltare pagina. L'esperimento (Einaudi, 2013), il romanzo che è venuto subito dopo, era ancora tutto impastato di quei temi, dell'ambiguità tra realtà e finzione, tra autenticità e artificio, tra volto e maschera. La vera ripartenza è La sposa, e lo è in tutti sensi: nuovo editore, Bompiani al posto di Einaudi, nuova forma, racconto e non romanzo, come non faceva più da anni, nuovi temi. Eppure, come ogni ripartenza, quando è solida, matura, si fonda sull'esperienza passata, fa parte di un dialogo ininterrotto tra autore e lettori. Così, questo libro appare allo stesso tempo un'apertura al nuovo e un compendio del percorso passato. Lo stesso Covacich avverte, nella nota finale, che "questo libro è l'ideale continuazione di Anomalie (Mondadori, 1998)", e però, per esempio, compare un racconto dedicato ad Angela del Fabbro, protagonista della Pentalogia ed eteronimo dell'autore nella scheggia impazzita Vi perdono, il cui vero nome, ci informa A nome tuo, è il notissimo Fiona, nata nel 2003 in A perdifiato e non più scomparsa. Convergono, insomma, in queste pagine, tutti i fili dell'esperienza letteraria di Covacich, che non cessa di cercare dentro di sé, in un sé violentato e ucciso forse dal reale, l'urgenza e la necessità della scrittura. Eppure, tutto comincia prima della prima parola. Nel tessuto di relazioni che lega questo libro a tutti gli altri, infatti, gioca un ruolo centrale per la messa a fuoco del tema e per la comprensione del senso, la dedica a Susanna. Dove Susanna, che pure sarà una persona reale (questo poco importa ai fini della lettura di questo libro, contava semmai per l'altro in cui compariva), è anche un personaggio fondamentale di Prima di sparire, scabra e violenta, anche se ingenua, discesa negli inferi di una inaccessibile realtà. E quel libro terminava con le pagine in cui persino lei, con i suoi grandi occhi nocciola, da fumetto, viveva l'esperienza assoluta e disarmante di perdere un bambino, e infrangere così la sua purezza contro un muro durissimo e invalicabile di realtà vissuta. Ecco, il filo conduttore che lega i racconti di La Sposa, la necessità di dire quel crimine senza colpevole della purezza improvvisamente sporcata, di quell'essere bicefalo (avere un figlio, essere madre) che quell'evento avrebbe potuto e forse dovuto creare e invece ha disperso per sempre. Così La sposa, per esempio, nel racconto che apre il libro, è l'artista Pippa Vacca che viaggiando per l'Europa in autostop in abito da sposa, vuole offrire al mondo la propria ingenuità e purezza, avendone in cambio annientamento e violenza. Oppure uomini ammirevoli, come Piermichele Paolillo, inventano una moderna ruota degli esposti, per salvare i bambini abbandonati rassicurando le madri che non rischiano nulla. I miei non-figli si chiama, del resto, una serie di racconti, nei quali l'autore collauda ciò che non è stato, simulando implicitamente la propria genitorialità (materna!) sul mondo intero nelle sue storie minime. A volte, l'autore dice io, badando a far coincidere (o quanto meno avvicinare moltissimo) quell'io al se stesso che scrive, e si impone, per esempio, di affermare la propria dignità di non padre: "Ci dovete più rispetto, perché alla fine saremo noi a rimanere soli"; altre volte, immagina un proprio parto nella solitudine e la sofferenza: "Immagino di avere una vagina. Immagino di avere un utero. Immagino di essere rimasto incinta per sbaglio"; altre volte cerca di penetrare la psicologia di un'infanticida. Ma la vertigine di purezza che il libro persegue in una rincorsa programmaticamente vana, ha molte altre declinazioni. È più un modo di stare nel mondo, di guardarlo, di raccontarlo, che un oggetto o un'esperienza. È quello di papa Wojtila di fronte alle proprie tentazioni e al proprio peccato, è quello dell'uomo dei lupi, il cui desiderio (ingenuo, superomistico, puro?) di tornare alla natura si trasforma in tragedia, o ancora quello del cantante ambizioso e stonato, fiducioso e fallito, sorpreso da una morte precoce e impietosa come un destino. C'è, poi, l'esperienza minima, quotidiana, che si infiltra tra le pagine. E si ritrova, così, il personaggio autore tra le vie, i locali, i parchi, di Pordenone e di Roma. È il personaggio che scruta la realtà, traendone un senso. Il personaggio che cerca ordine nel disordine, che cerca significati in ogni apparizione. A ogni pagina, ci troviamo accanto a lui, riviviamo il suo sforzo della ragione, il suo mettersi in crisi, il suo essere aperto al mondo, la sua ingenuità sottomessa speculare a quella della sposa. Proprio lì, l'intero libro trova la sua bruciante motivazione: "Lei lo sta facendo perché sta male. Come me. Abbiamo deciso di odiarci in fondo anche la guerra aiuta ma la nostra non è una questione personale. Io e lei siamo fratelli". La nostra, verrebbe da aggiungere: quella dell'autore e quella di noi lettori. E la guerra: forse quella del bambino mal nato, l'ultimo, nell'ultima pagina. Quella virgola di vita tenacemente nata nel deserto umano, una tenue luce che significa la nostra definitiva e forse vana speranza. Alessandro Cinquegrani
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