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Anno edizione: 2022
Anno edizione: 2022
Agamben, Giorgio (a cura di) \ Cavalletti, Andrea (a cura di) , "Cultura tedesca", n. 12, 1999
Jesi, Furio \ Ker‚nyi, K roly, Demone e mito. Carteggio 1964-1968, Quodlibet, 1999
Jesi, Furio, Spartakus. Simbologia della rivolta, Bollati Boringhieri , 2000
recensioni di Cassata, F. L'Indice del 2000, n. 11
Nell'introduzione a un numero monografico di "Cultura tedesca" dedicato alla figura di Furio Jesi, Giorgio Agamben e Andrea Cavalletti individuano efficacemente gli elementi di maggior interesse e difficoltà presenti nell'opera del mitologo e germanista torinese, scomparso nel 1980 a soli 39 anni: da un lato, l'eccentricità di un'"officina creativa" lontana dai percorsi accademici e non inscrivibile all'interno delle due culture egemoniche del dopoguerra italiano, quella marxista e quella cattolica; dall'altro, l'elaborazione di una complessa forma di scrittura, che fa del saggio una composizione architettonica, organica e coesa attorno a densi nuclei epistemologici. Tali caratteristiche vengono costantemente ribadite dalla pubblicazione di inediti, che contribuiscono ad aggiungere nuovi frammenti a un autoritratto di Jesi prematuramente interrotto: come, ad esempio, i testi su mito e linguaggio, le lettere a Calvino, le riflessioni su Rilke e Benjamin, contenute in "Cultura tedesca". Ma soprattutto come un libro di grande originalità, Spartakus, consegnato all'editore Silva nel 1969 e pubblicato solo ora da Bollati Boringhieri.
Spartakus non è una storia del movimento spartachista tedesco, bensì una riflessione teorico-mitologica sui caratteri generali del fenomeno della rivolta. L'asse portante dell'argomentazione jesiana ruota intorno al binomio rivolta-rivoluzione. La differenza consiste in una "diversa esperienza del tempo": la rivolta è sospensione del tempo storico, dotata di valore autonomo, indipendente dalle sue conseguenze e dai suoi rapporti con la storicità; la rivoluzione è, invece, calcolo strategico di lungo periodo, immerso nel tempo storico. A una visione "esterna", storicistica della rivolta, Jesi contrappone un'interpretazione "interna", husserliana, fenomenologica. Alla svalutazione della rivolta propria della dialettica marxista, Jesi risponde con una rivalutazione del fenomeno insurrezionale, incentrata sulle categorie della scienza del mito.
Dal discorso mitologico provengono, infatti, le griglie concettuali entro cui si sviluppa la fenomenologia jesiana della rivolta. Già l'assunzione del nome di Spartaco rivela "una cristallizzazione strategica del presente storico tale da evocare l'epifania del tempo mitico". La rivolta si colloca all'intersezione tra tempo mitico e tempo storico e ciò spiega la sua strutturale inattualità. Alla separazione tra moto della storia e immobilità del mito propria del saggio sull'éternel retour di Mircea Eliade, Jesi contrappone la sintesi di tempo storico e tempo mitico nell'ambito del "funzionamento esistenziale dell'io", nell'istante della "distruzione" del soggetto e del suo accesso al mito. È questa la "teologia della rivolta": la rivoluzione, rifiuto della borghesia, è attuale perché costruisce e prepara il domani; la rivolta, esasperazione della borghesia, è inattuale perché distrugge, evocando il dopodomani.
Rivolta è, in secondo luogo, affermazione esclusiva delle componenti simboliche dell'ideologia e demonizzazione mitologica dell'avversario: l'impatto della guerra e la stessa realtà fisica del potere capitalistico berlinese inducono gli spartachisti a stigmatizzare i nemici come "mostri". Il manicheismo della rivolta rivela, però, l'incapacità marxista di istituire quel rapporto vitale tra mito e strategia politica, colto, invece, secondo Jesi, dalla cultura borghese, con Storm e Mann. Il fenomeno insurrezionale porta con sé, infatti, la "mitologizzazione della sconfitta": la fascinazione dei simboli del potere capitalistico produce l'esigenza di contrapporre a un avversario demonico una virtù eroica. La morte di Rosa Luxemburg e di Karl Liebnecht diviene così, da un lato, testimonianza di una "propaganda politica genuina", che corrisponde al linguaggio di verità del mito; dall'altro, "sacrificio" dettato dalla logica "autolesionistica" della rivolta. E i simboli del potere avversario intervengono nel processo di mitologizzazione della lotta di classe, nella misura in cui il sacrificio si trasforma in "precedente esemplare".
Se la rivolta è rottura del "tempo normale", ovvero della "manipolazione borghese del tempo" e della sua dialettica mito/storia, la scrittura della rivolta deve porsi in chiave di de-mitologizzazione. Per questo, il Doktor Faustus di Mann e il Tamburi nella notte di Brecht, rifiutando di inserire la rivolta del 1918-19 in un nuovo processo mitologico e considerandola invece come sconfitta dell'uomo di fronte al destino, ne restituiscono l'essenza, come intersezione tra tempo mitico e tempo storico. In tal senso, anche la scrittura del mitologo è de-mitologizzante. Spartakus è, dunque, il duplice movimento della scrittura e dell'idea, accomunate dall'essere "epifania" e "sovversione", esperienze di sospensione del tempo normale e di evocazione di una realtà nuova e collettiva.
Proprio nei giorni in cui scriveva l'introduzione a Spartakus, Jesi consumava la rottura con Károly Kerényi, testimoniata ora dalla pubblicazione del carteggio inedito, giunto finalmente a completare il quadro dei saggi dedicati da Jesi allo studioso ungherese, in particolare i testi iniziali dell'einaudiano Materiali mitologici. Lo scambio epistolare copre un arco di quattro anni, dal 1964 al 1968: da un lato, il celebre mitologo, quasi settantenne, amico di Otto, Mann, Jung; dall'altro, un giovane erudito ventiduenne, che ha avuto come interlocutori Georges Dumézil, Claude Lévi-Strauss, Gershom Scholem.
Le lettere definiscono, innanzitutto, un vasto campo di sperimentazione della scienza del mito, che spazia da Apuleio a Mann, da Frobenius a Pavese. Ma il discorso si orienta spesso verso la dimensione politica e i suoi legami con l'essenza del mito: dalla riflessione su Buber, il sionismo e la tradizione religiosa ebraica, durante la Guerra dei sei giorni, al problema della "tecnicizzazione" del mito, ovvero del suo asservimento a scopi politici, con particolare riferimento al nazismo. La conferenza di Kerényi del 1964, Dal mito genuino al mito tecnicizzato, rappresenta forse il nodo fondamentale dell'epistolario. Il testo accompagna non a caso la prima lettera di Kerényi, e su di esso si fonda la discussione sulla stesura iniziale di Germania segreta, in relazione al rapporto tra responsabilità del mito (Jesi) e colpa dell'uomo (Kerényi). Ed è ancora nel disaccordo sul concetto di "mito genuino" che si consuma la rottura, legata al saggio Cesare Pavese, il mito e la scienza del mito. Jesi giudica qui Kerényi come "devoto della religione della morte", poiché la possibilità di un'evocazione genuina del mito resta "mascheratura umanistica" di una presenza estranea alla vita, se i confini del tempo storico non vengono distrutti in quell'evocazione. E Kerényi, all'ombra della Primavera di Praga, etichetta il concetto di "mascheratura" come "italo-comunista". È una frattura politico-ideologica, ma è anche una cesura che coinvolge il processo di trasmissione del sapere tra maestro e allievo: una crisi generazionale, "che si dispiegherà nelle vie e che si combatterà con le armi; una crisi in cui anche maestro e discepolo, e padre e figlio, si ritroveranno concretamente nemici, nell'una e nell'altra schiera". Sono le parole conclusive dell'ultima lettera di Jesi a Kerényi, datata 16 maggio 1968.
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