La mia Libia, la mia Juve, il magico Mundial.
Il giorno della finale arriviamo nello spogliatoio e Bearzot dice poche, ma importantissime parole, come sempre del resto: «Ragazzi, parliamoci chiaro. Arrivati a questo punto, sarebbe assurdo non farcela». È l’ora del solito rito propiziatorio, ma alla faccia della scaramanzia si decide di cambiare. È Zoff, non Conti, a inginocchiarsi davanti a tutti noi per lanciare il tradizionale grido di battaglia. In fondo lui ha la schiena un po’ più curva di Bruno e i “gobbetti”, si sa, portano fortuna. «Dino, stai giù» gli gridiamo io e Tardelli, e appena tutti gli mettiamo le mani sulla testa e sulla schiena lui sussurra: «Chi si ritira dalla lotta…».
Chissà se nel 1961, quando a soli otto anni lasciava la Libia anticipando l’esilio di massa a cui Gheddafi avrebbe costretto tanti italiani, Claudio Gentile immaginava anche solo lontanamente che cosa gli avrebbe riservato la vita e la carriera calcistica. Chissà se immaginava che a vent’anni si sarebbe trasferito dal Varese alla Juventus per 250 milioni pagati in motorini per frigoriferi, diventando in poco tempo un perno inamovibile e un jolly capace di giocare da mediano, da terzino su entrambe le fasce, da stopper, all’occorrenza persino con la maglia numero 10. Chissà se immaginava di vincere sei Scudetti, due Coppe Italia, una Coppa Uefa e una Coppa delle Coppe in undici anni bianconeri. Chissà se immaginava di trionfare al Mundial ’82 contro tutto e contro tutti: contro i giornalisti, contro chi in Italia aveva già preparato i pomodori, contro avversari del calibro di Maradona e Zico, annullati con una marcatura ruvida e a volte dura ma mai sleale (tanto da non essere mai stato espulso in carriera per gioco violento). Chissà se immaginava, Claudio, quel giorno sul ponte della nave, che avrebbe fatto da vice al suo maestro Trapattoni alla guida della Nazionale, poi allenato l’Under 21, vinto l’Europeo 2004 e una medaglia olimpica che mancava dal 1936, prima di sentirsi tradito dalla Federazione e messo frettolosamente ai margini del campo. Chissà se immaginava che la sua promettente carriera di allenatore sarebbe finita così presto. Di tutto quello che non poteva immaginare e molto altro ancora Claudio racconta nelle pagine di E sono stato Gentile, scritto in collaborazione con la storica firma della «Gazzetta dello Sport» Alberto Cerruti. In bilico tra grinta e nostalgia e senza rinunciare a qualche entrata decisa come quelle dei bei tempi.
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