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Sono le macchine, nella loro evoluzione, a trascinare i cambiamenti sociali o è il carattere performativo dell'interpretazione a "costruire" le macchine. Probabilmente sono due prospettive entrambe vere, ma solo in parte. Tuttavia condivido con Dyson l'ottimismo per il futuro e l'occasione che alcune rivoluzioni scientifiche ci offriranno per imprimere un nuovo corso alla storia dell'uomo.
Recensioni
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recensioni di Longo, G.O. L'Indice del 2000, n. 10
L'accelerazione impressa alla nostra multicolore civiltà delle macchine dalle nuove tecnologie non consente l'analisi razionale dei possibili futuri: l'unico esercizio praticabile è la costruzione (affannosa e continuamente rivedibile) di scenari basati su dati e conoscenze, ma anche su intuizioni e desideri. A questo esercizio di futurologia non si sottrae Dyson, fisico e divulgatore, che con un imponente bagaglio di competenze, ma anche con alcuni forti pregiudizi, s'interroga sul mondo che già batte alle porte. Ritenendo che la scienza si basi non solo sulle idee astratte, ma anche e soprattutto sugli strumenti (la scienza è più vicina "alla costruzione di caldaie che non alla filosofia"), il nostro coglie in pieno il fatto che nel Novecento la teoria è stata superata dalla pratica: la tecnica non aspetta più le giustificazioni scientifiche e si sviluppa più per contagio o per innovazioni locali che per grandi progetti razionali. Ad esempio della Rete o del software non esiste una teoria: funzionano, ma non si capisce bene perché. Gli informatici sono più artigiani che scienziati. E così i genetisti.
Il limite del libro sta in una contraddizione non risolta. Da una parte un forte ottimismo della volontà spinge Dyson a credere in un inevitabile progresso verso l'equità e la giustizia globali per effetto di una tecnologia che non può non promuovere un'etica umanitaria ("Le nuove tecnologie ci offrono la concreta opportunità di rendere il mondo un luogo migliore"). Dall'altra un lucido pessimismo gli fa percepire i gravi rischi legati allo sviluppo (l'informatica ci porta verso una "competizione spietata che per molti di noi risulta distruttiva" e impone "vincoli economici e culturali davanti ai quali non abbiamo la forza di resistere").
Dyson è convincente quando denuncia i pericoli dell'innovazione incontrollata in ambito genetico e informatico ("L'intelligenza artificiale e la manipolazione genetica sono in realtà le future minacce all'autonomia dello spirito umano"); meno lo è quando vuol tranquillizzare a tutti i costi, preconizzando tecnologie taumaturgiche: per esempio la soluzione degli inevitabili problemi del futuro consisterà in una migrazione di massa dalla Terra verso gli asteroidi e le comete del sistema solare, dove "la vita sarà diversa dalla vita sulla Terra, ma non sarà necessariamente meno bella o più limitata" (corsivo mio). Insomma oscilla tra il timore di un mondo in cui sa che gli uomini non saranno più uomini e l'attesa di un mondo che spera migliore.
Nonostante il suo asserito distacco da scienziato, l'autore manifesta inquietudine per una tecnologia che soggiogherà l'uomo e lo sradicherà dalla sua storia evolutiva: forse non è abbastanza relativista da rendersi conto che in futuro vivranno esseri diversi, che giudicheranno il loro mondo in base a parametri diversi dai nostri: non siamo noi a doverci preoccupare per loro. Eppure mi sento vicino a Dyson e condivido le sue apprensioni.
Discreta la traduzione di Maria Gherardelli.
(G.O.L.)
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