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«Ecco, dunque, com'è il deserto! Il sole ride. Le montagne giocano a rimpiattino con le ombre. Cosa può loro importare se hanno davanti rosei corpi vivi o cadaveri bluastri, dagli occhi bevuti per il vino o perché svuotati del sangue?»
«Un documento terribile, eppure soffuso di splendore poetico, del tempo in cui i benefattori rossi "spazzavano la Crimea con una scopa di ferro"» – Thomas Mann, 1926
«È una verità che trascende la maestria letteraria... Chi altri è riuscito a comunicare la desolazione e l'universale sfacelo dei primi anni sovietici, del comunismo di guerra?» – Aleksandr Solženicyn, 1992
Penisola di Crimea, 1920-1921. La Riviera russa, devastata dalla rivoluzione e dalla guerra civile, è teatro della vendetta dei vincitori. Nella terra dei cimmeri, dove un mito degli antichi greci collocava la porta dell'Ade, divampa il moderno inferno dello sterminio dei "nemici del popolo". Dall'alto di una casetta su un poggio affacciata su Alušta, cittadina incastonata tra i monti e il Mar Nero, il Narratore, che è l'autore stesso, assiste all'agonia per fame, saccheggi e abbandono di intere famiglie con bambine e bambini, arti e mestieri, vigne e frutteti e campi, e degli animali domestici, che deperiscono e muoiono insieme agli umani. Ivan Šmelëv, scrittore reputato e famoso in Russia fin dai primi anni del Novecento, pur nella catastrofe in atto sceglie di non andarsene per cercare di salvare il figlio, arrestato e scomparso. Quando avrà bussato a lungo e invano alle porte del nuovo Potere, abbandonata ogni speranza, si rassegna ad emigrare. Ospite di Ivan Bunin in Francia, comporrà in pochi mesi del 1923 Il sole dei morti, primo di tanti suoi libri diventati popolari nella "Russia all'estero" e infine ritornati nella Russia postsovietica in innumerevoli ristampe. Šmelëv stesso ha voluto per Il sole dei morti il sottotitolo di epopea: all'afflato epico e lirico di una grande penna si unisce la potente testimonianza su una tragedia epocale a lungo mistificata e rimossa, restituita in presa diretta nelle esistenze concrete delle persone che la subirono.
Recensioni pubblicate senza verifica sull'acquisto del prodotto.
Romanzo impegnativo, non particolarmente scorrevole; tosto come la tematica di cui l'autore si erge ad indispensabile testimone. E' un libro di desolazione, tristezza e miseria, tanta miseria.
Crimea, fine 1920, metà 1921. La Riviera russa, devastata dalla rivoluzione e dalla guerra civile tra bolscevichi occupanti e i Bianchi, è teatro della vendetta dei vincitori, che invadono tutto il territorio, saccheggiando, ammazzando la popolazione e riducendo il territorio in totale carestia, dove muoiono per fame uomini e animali (forse 120-150 mila per la guerra civile e altre migliaia per fame e malattie, un mattatoio umano). Il racconto si snoda nella cittadina di Alušta, fino a poco tempo prima amena località di villeggiatura. La carestia e la desolazione del territorio sono così estese che la gente muore per strada elemosinando di isba in isba un tozzo di pan secco con cui sopravvivere. La situazione è così disperata che gli abitanti raccolgono sacchi di foglie di vite, le triturano e ne fanno una zuppa per cena. Il comunismo di Lenin è definito “setta sanguinaria”. Negli ospedali, dove torme di affamati cercano rifugio, circola il detto: “morire di fame non è una malattia”. La propaganda sovietica, ovvio, è di ben altro tenore: “i lavoratori avranno pane a volontà”. I massacri sono operati per ordine di NKVD alle truppe russe, che spesso catturano i ribelli poi li buttano a mare, vivi, zavorrati. E’ un romanzo denuncia che porta alla ribalta questi atroci episodi, passati sotto silenzio dagli aggressori, che ebbe ampia risonanza nel mondo occidentale. La valenza positiva di questo racconto è l’aperta denuncia di questi eventi di bassa macelleria. Un aspetto, forse meno positivo, è che il romanzo picchia duro su quest’orrenda realtà senza digressioni, senza alleggerimenti del racconto. Dall’inizio alla fine l’orrore cresce a dismisura. Va letto con l’elmetto in testa per evitare di fracassarsela. In alternativa suggerisco Igort (Quaderni Ucraini, Mondadori, 2010) dove i massacri ucraini di Stalin sono descritti con maggior levità: i 5,6 milioni di ucraini nel 1928 sono disegnati a tratto pieno; nel 1934, i 149 mila superstiti sono sfumati, evanescenti.
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