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L’esposizione, che divisa in tre parti tenta anche di indicare una possibile soluzione a questa tragedia dell’individuo e del mondo, intende, secondo il nesso organico dell’idea di ‘forza’, della greca hybris ma non soltanto, inquadrare quest’emblematica figura nei confini della prima metà del 900, della cultura tesa a valorizzare il pensiero delle donne, soprattutto in campo filosofico, e nell’orizzonte più ampio della civiltà cristiana. La studiosa parte infatti da un doppio rilievo: la purezza del cuore di S.W., che simboleggia la grâce, e la corruzione di tutti gli ambiti del mondo, prendendo avvio dal sogno orrido e contagioso di Hitler, dai pericoli di un’immaginazione offertasi in tutto al ‘possibile’ dimenticando la necessità divina che attraversa l’uomo e gli chiede di essere riconosciuta, sino alla bassa politica del presente. Vi giunge, nel prestissimo del suo tempo di scrittura, attraverso un mosaico di varie citazioni, trascelte oculatamente, per riuscire con questo stratagemma a rendere più che mai attuale il volto di questa grande filosofa, purtroppo sempre più spesso lodata e chiamata a testimone che realmente letta. In Italia, come vedo dalla bibliografia in appendice, l’opera della Weil è stata ampiamente tradotta, e accanto alle nuove versioni uscite per Adelphi si trovano ancora ripubblicate o nelle biblioteche le prime, degli anni Cinquanta, di Fortini, di Orsola Nemi. Libri divenuti ormai una pietra miliare della riflessione religiosa e filosofica, quali La condizione operaia, Attesa di Dio, La Grecia e le intuizioni precristiane (dell’editore Borla), La prima radice, ma anche il testo teatrale Venezia salva, corredata dalle dense speculazioni di Cristina Campo.
“Io sono nata per amare, non per odiare”. Questa nota frase, pronunciata da Antigone, descrive in maniera essenziale e tragica anche la via esistenziale di Simone Weil, esempio puro ed elegante di un’identità di fuoco, di una scrittura animata da un personale contrappunto filosofico-lirico, come, in Italia, Cristina Campo, e in Germania, die jüdischen Philosophinnen, Edith Stein e Hannah Arendt. Se il verso di Antigone è magnifico, scrive la W., la risposta di Creonte—“allora, se vuoi amare vai sotto terra e ama i morti”—è ancora più sublime, mostra che “coloro che vogliono partecipare solo dell'amore e non dell’odio, appartengono a un altro mondo e debbono attendersi una morte violenta” (Intuitions pré-chrétiennes). Così sarà per E. Stein, mentre alla W. il destino concederà una morte più mite, quasi autoinflitta, lontana dalla Francia e da Parigi. D’altronde, in quel tempo storico a ridosso di grandi guerre, così come avviene da sempre, il mondo non permetteva l’amore “puro e duro”, solo fra i morti, nell’aldilà, si ha la libertà di amare; e solo presso i dipartiti, l’amore trova tutta la sua espressione più piena: come Antigone, la W. è un essere del tutto puro, del tutto incolpevole, fermamente eroico. Fino ad autoinfliggersi la morte, a scegliere di non più nutrirsi, per lasciare il proprio cibo alle persone stremate dalla guerra? Si può credere che la scrittrice e i libri di lei, pieni di intelligenza, ci indichino insieme alle considerazioni su Antigone, una precisa volontà di lasciarsi morire? L’autosacrificio dell’innocente come una dolce freddezza che può riscattare dalla maledizione della condition humaine, assimilata alla disubbidienza di Laio a Dio e diffusa di generazione in generazione? Il saggio della studiosa Benagiano tenta di rileggerne l’opera alla luce di questa tragicità del destino, di questo agonismo trasparente dalla rappresentazione della pesanteur, collegando molteplici elementi biografici e filosofico-religiosi.
Il saggio di Antonietta Benagiano è molto chiaro nei concetti e lineare nella esposizione, come si addice ad un testo didattico-divulgativo. Esso però pone anche problemi per una riflessione ulteriore. L'interrogativo iniziale è di natura teorica, filosofica: il problema se il "nostro tempo" sia "abitabile"; l'interrogativo finale è di natura biografica: l'ipotesi che Simone Weil abbia scelto di abbandonare questo, perché lo riteneva "inabitabile". Con il medesimo sguardo critico l'autrice espone il pensiero di Simone Weil, sia in campo sociale, sia in campo politico-ideologico e lo segue, in sintesi precise, nei suoi mutamenti che, sempre, svelano come Simone Weil sia stata costantemente spinta verso la ricerca della verità. In questo quadro concettuale sono inscrivibili, ad esempio, il passaggio dal marxismo alle posizioni più vicine al sindacalismo e al trotskismo e, pur essendo pacifista, la scelta di combattere, nel 1936, con i repubblicani anti-franchisti nella guerra civile spagnola. L'autrice fa dunque emergere una personalità tutta proiettata verso la verità, ma fa anche capire un'altra caratteristica fondamentale di Simone Weil: il primato dell'esperienza pratica sulla astrazione teorica, del "vivere" sul "pensare". Un primo esempio concreto di tale impostazione di Simone Weil è costituito dalla sua decisione di lasciare, benché temporaneamente, l'insegnameno liceale per lavorare in fabbrica, al fine di rendersi conto, direttamente, della condizione degli operai. Francesco Di Ciaccia
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