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Il titolo del volumetto in questione dà nella sua severa geometricità un'impressione di implacabile negazione, di vacuità e di assenza, ribadita poi dalla lettura dei pochi brani narrativi presenti, che quasi ossessivamente descrivono interni ed esterni ostili, punitivi. C'è una materialità esibita in ogni descrizione, quasi che il corpo dell'autrice, e i corpi che le si muovono intorno (persone o animali, vegetali e oggetti animati) reclamassero come unica, possibile verità il loro dato fisico, per quanto sfatto, deforme, lacerato. Alla violenza dei termini verbali (si scortica, si spaccano, sventro, m'inghiotte, ci divoriamo, brucia, malediciamo, urla, si sfrega, si frantuma?) corrisponde la scelta insistita di sostantivi che palesano aggressività, mancanza, repulsione: delirio, veleno, cloaca, buco, ferita, crepa, spaccatura, putrefazione, decomposizione? Le poche figure umane si aggirano come zombie privi di passato e futuro, in immagini frantumate che assumono i contorni di incubi psicotici: "Io apro la porta per vedervi scomparire, tappo le orecchie con due cuscini, avvolta in un falso sonno fingo di non sentire ma vi sento. // Dal fondo delle scale dite: non ce ne andremo. // E così vi seguo, ci attacchiamo alla bottiglia come a una mammella, è una risata a margine del mondo. Le giovani apparizioni mi abbracciano la testa. Poi, come mantidi, ci divoriamo". Dalla anziana donna che appare nel primo brano, vecchia volpe onnivora e mendace, ai ragazzi "sospesi in un delirio secco" che si fanno le canne accoppiandosi con indifferenza animale, ai disperati sopravvissuti a un tentativo di suicidio, relegati in cliniche psichiatriche o nei gelidi stanzoni di un pronto soccorso, il mondo descritto da Mariasole Ariot è "la vita al suo grado zero", una deriva degradante e rassegnata, "un inferno sempreverde", lo spazio vuoto e simmetrico dell'assenza di bene.
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