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Non accade tutti i giorni che si riesca a suscitare l'invidia dei nostri cugini d'oltralpe sempre molto attenti e gelosi, si sa, dei loro autori. Ma stavolta il colpo è tutto italiano. E lo porta a segno la casa editrice Adelphi grazie all'intelligenza e all'intuito di Antonio Gnoli. Il quale ha confezionato un libro prezioso, in grado di restituire quella figura tanto insolita quanto complessa che fu Alexandre Kojève. Il filosofo, russo di nascita e francese d'adozione - dopo gli studi universitari nella Germania degli anni venti - è infatti noto per la proverbiale discrezione e per aver reso pubblica soltanto una parte esigua dei suoi scritti.
Tanto per avere un'idea, basti pensare alle celebri lezioni su Hegel che tenne dal '33 al '39 a Hautes Études: lo investirono di un'eccezionale fama filosofica (fra gli uditori si confondevano Jacques Lacan e Georges Bataille, Maurice Merleau-Ponty e Raymond Queneau, Eric Weil, Roger Caillois, Jean Hyppolite, Raymond Aron, Robert Marjolin, talvolta, tra altri ancora, André Breton) e segnarono un punto di svolta essenziale per gli studi hegeliani. Ma quando nel dopoguerra Gallimard volle pubblicare queste lezioni, Kojève non se ne curò affatto e lasciò a Queneau il compito di redigerle. Anzi, fu per lui un motivo di ironica fierezza, che commentava così: "Non sono stato io a pubblicare lÆIntroduction à la lecture de Hegel. La pubblicazione è stata fatta da un umorista, Raymond Queneau. Questo punto è molto importante per me. Del resto Queneau ha riassunto la Fenomenologia dello Spirito scrivendo Zazie dans le métro. Zazie era venuta a Parigi per vedere il métro. Ma la sola volta in cui è andata in métro, s'è addormentata e non ha visto nulla. Ecco il romanzo della saggezza".
Tanto basti per restituire l'ironia e il paradosso di questo strano personaggio che, con la sua lettura di Hegel, entrò con noncuranza, quasi badando ad altro, nel mito della cultura parigina. E con la stessa aria indifferente e distaccata decise di non far parte di quella cultura "ufficiale" rappresentata dall'élite accademica. Subito dopo la guerra si impiegò infatti nell'amministrazione francese, intraprendendo una brillante carriera come alto funzionario della direzione delle relazioni economiche internazionali di Quai Branly. E qui ricoprì un ruolo totalmente indipendente e al di fuori da ogni gerarchia: conformemente al suo brillante argomentare, da buon dialettico, gli fu conferito l'incarico di "consigliere segreto", una sorta di eminenza grigia chiamata a tessere le tattiche della politica commerciale francese da adottare nelle negoziazioni internazionali.
Questo non significò per Kojève l'allontanamento dalla filosofia. Come Machiavelli, che dopo esser stato all'osteria a giocare a carte e a litigare con i contadini, a mangiare e a bere vino, rientrava a casa e si spogliava delle vesti quotidiane per rivestire quelle solenni e curiali, indossate per discutere con Tito Livio e Cicerone, così anche Kojève dimetteva le vesti del perfetto funzionario per infilarsi quelle da filosofo. E solo lui sa dove trovasse il tempo, oberato com'era dagli impegni internazionali. Diceva che scrivesse durante le festività: cosa che gli valse il soprannome di "filosofo della domenica", come lo chiamavano gli amici. Di questa attività filosofica semiclandestina si erano perse le tracce. Pochi saggi, sparuti, apparsi prevalentemente in riviste ormai datate, ma sempre densi di acume e provocazione, degni di una cultura enciclopedica (un tratto ottocentesco, che per certi versi ricorda Max Weber).
Ecco dunque il motivo dell'invidia degli amici francesi: per la prima volta al mondo vengono raccolti questi saggi che testimoniano l'originalità del pensiero di Kojève. Un pensiero che, prendendo in prestito le parole del curatore, "mostra anche gli aspetti più eccentrici, anzi addirittura frivoli - di una suprema frivolezza -, accostando al dibattito con Leo Strauss le lettere allo zio Kandinsky, alla ricostruzione dei rapporti fra cristianesimo e scienza un articolo su Raymond Queneau, e al fondamentale saggio sull'imperatore Giuliano una riflessione su due romanzi di Fran&çoise Sagan". Né si devono dimenticare la parte qui presente della corrispondenza con Georges Bataille; il progetto politico kojèviano dal titolo L'impero latino (scritto nel '45: è vivamente consigliato agli odierni detrattori del concetto di "impero"); il saggio sul rapporto fra cristianesimo e comunismo; come del resto l'analisi del capitalismo riassunta dal motto: Marx è Dio, Ford il suo profeta.
Insomma, un libro talmente ricco e di ampie prospettive, che il buon recensore non può far altro che invitare a prenderlo fra le mani. Con l'avvertenza, però, che fra le sue righe si celano le questioni epocali, ancora aperte, del rapporto tra filosofia e storia, fra tirannide e saggezza - ossia filosofia e politica. Kojève ha respirato quella brezza che Hegel chiamava spirito del tempo. Sembra che ancora oggi non abbia smesso di soffiare.
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