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Dalla Bolivia al Burkina Faso, passando attraverso molti paesi africani e asiatici, Marina Forti presenta una serie di vicende che riguardano "persone, risorse naturali e conflitti". La gamma dei casi è ampia, ma il trinomio in cui l'autrice stessa ha voluto racchiudere a posteriori il contenuto del libro costituisce un'ossatura unificante che ne rende molto compatto tanto il senso quanto lo stile. Che le persone occupino il primo posto è anzi una delle ragioni per cui la lettura riusce avvincente: da un lato, perché l'analisi degli aspetti ambientali è continuamente integrata con l'attenzione per i comportamenti dei soggetti coinvolti (coloro che vivono nelle zone interessate, ma anche i militari, gli esponenti politici, i rappresentanti degli interessi delle compagnie che mirano a sfruttare l'acqua o il petrolio o i diamanti, quante e quanti si attivano da vicino o da lontano in difesa dei diritti negati); dall'altro, perché la forma narrativa utilizzata si anima di testimonianze e brani di interviste che pongono a contatto diretto con le donne e gli uomini protagoniste/i di lotte non solo per la sopravvivenza materiale ma per un'esistenza degna.
È questo un filo che lega molti dei casi considerati: con le parole di Chekkottu Kariyan Janu "leader riconosciuta del movimento degli adivasi del Kerala", la questione di tutti i settori emarginati è riuscire a organizzarsi e costringere "la società nel suo insieme" a capire che essi hanno "diritti sulle risorse. Se questi diritti non sono protetti, non può esserci reale democrazia". Trattati da "occupanti abusivi" (mentre adivasi significa letteralmente "abitanti originari del suolo") e cacciati con brutalità dalla polizia in armi, tra morti e distruzioni, gli "abitanti della foresta" non cesseranno però di lottare. Ne va di quella che - secondo un giudice chiamato a indagare sullo sgombero violento che essi hanno subito - è "la quintessenza della 'questione tribale' (...) il loro diritto umano a vivere con dignità sulla loro terra". Non diversamente, gli abitanti dei villaggi tailandesi cui una diga sul fiume Mun, affluente del Mekong, ha stravolto la vita, privandoli in particolare della pesca, si sono mobilitati da anni in una protesta che non può accontentarsi di risarcimenti in denaro, perché - come dice il presidente del Comitato dei villaggi per la rinascita del fiume Mun - "prima della diga (...) non avevamo bisogno di pagare per il cibo, perché trovavamo il necessario nel fiume o nelle foreste" e se prima "le donne erano il personaggio chiave della famiglia" - aggiunge la cinquantenne capo di uno dei villaggi - ora invece "molte sono andate a Bangkok e non sono mai tornate. È triste, le famiglie sono state divise e siamo diventate infelici".
Così ancora, nel caso su cui il libro si apre, è la volontà di affermare i propri diritti collettivi che dà ai cittadini di Cochabamba la forza per vincere la guerra dell'acqua, affrontando la repressione violenta fino a costringere il governo boliviano ad abrogare il contratto di privatizzazione stipulato - sotto la spinta della Banca mondiale - con un consorzio guidato dalla Bechtel Corporation. Di nuovo la spinta che induce a continuare nella "battaglia popolare", pur a prezzo di morti e feriti, è legata al senso profondo dell'inalienabilità dei diritti fondamentali: "perché l'acqua resti un bene pubblico essenziale", dice Oscar Olivera, portavoce della Coordinadora de defensa del agua y de la vida.
All'altro capo del testo, troviamo come caso finale il "progetto per migliorare la vita" di cui parla Hamidou Ouédraogo raccontando di come si è costituito un insieme di "gruppi di villaggio" nel Plateau Mossi del Burkina Faso: impresa di mutuo soccorso (Song Taaba: "aiutiamoci tra noi") che è cresciuta su se stessa migliorando le colture, riuscendo a contrastare l'erosione del terreno, ripristinando antichi sistemi per trattenere l'acqua, ripiantando alberi, dotandosi di aratri e altri attrezzi, avviando varie attività produttive, con una partecipazione delle donne che ne ha migliorato lo statuto e con un cambiamento di mentalità che ha portato a perseguire alfabetizzazione e formazione.
Nell'impossibilità di dare conto di tutta la varietà dei venticinque casi trattati, è da segnalare la scelta dell'autrice di aprire e concludere il suo percorso su due situazioni di successo. Scandito in cinque sezioni, ciascuna divisa a sua volta in quattro capitoli e un intermezzo che asseconda il passaggio tra i diversi temi su cui via via si concentra l'attenzione (L'acqua, il petrolio, i militari, Gli sfollati dello sviluppo, I pirati nella foresta, Assalto (armato) alle risorse, Gli alberi e la terra, cui seguono alcune pagine molto dense A mo' di conclusione), il libro è fitto di vicende di sopraffazioni, ingiustizie, violenze, devastazioni ambientali e umane. Il tratto ricorrente più angoscioso è quello della pervasività della violenza armata: eserciti e polizia che scacciano quelli che diventano gli "sfollati ambientali" del sottotitolo, ecomercenari assoldati per proteggere con le armi un modello di conservazionismo che ignora i diritti umani in nome di quelli di una natura sempre più artificiale, conflitti per le risorse ma anche le risorse stesse usate come mezzi per guerre "che si autofinanziano" con i "diamanti insanguinati" o il coltan o il legname, dall'Angola, alla Liberia, alla Sierra Leone, al Congo-Zaire.
Eppure, l'asprezza e la fermezza delle denunce non vira mai verso la disperazione; man mano che si legge delle popolazioni aggredite per il petrolio o il gas dalla Nigeria all'Indonesia o per costruire grandi dighe dall'India alla Tailandia o per appropriarsi delle foreste dalla Cambogia alla Tanzania, cresce lo sdegno, ma cresce anche la convinzione che la resistenza non solo è giusta ma è possibile e che le alternative esistono, incarnate nel coraggio e nella saggezza delle persone e dei gruppi che si saldano tra azioni locali e reti globali.
Quest'ultimo è uno tra i tanti aspetti che danno valore a questa raccolta: pur serbando la vivacità e l'immediatezza dell'informazione giornalistica (vari capitoli si rifanno alle note e alle interviste che Marina Forti va pubblicando da anni sul "manifesto"), ogni caso è ricostruito con grande attenzione sia per lo sviluppo nel tempo - per cui l'episodio che "fa notizia" viene immerso in una narrazione di più lungo periodo che ne inquadra la complessità - sia per l'articolazione delle parti coinvolte, con una documentazione accurata e ampia citazione di fonti. L'apparato delle note diventa così un contributo prezioso di informazioni che fanno scoprire quanti gruppi agiscano e interagiscano tra Sud e Nord del mondo, in un'interconnessione che dà a ciascuno di essi maggiore conoscenza e maggiore forza e rende possibili quei progetti di sviluppo rurale "equi, sostenibili e giusti, basati sulla partecipazione delle comunità" di cui parla Medha Paktar, la Signora di Narmada che dà il titolo al libro.
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