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Sceneggiatura scritta a due mani da Olmi e Rigoni Stern per un film tratto dal libro omonimo, mai realizzato per diversi motivi. Omaggio a Rigoni morto poco prima che il libro uscisse.
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Come scrive Gian Piero Brunetta nell'ampio saggio che fa da postfazione al volume, «la storia del cinema è fatta anche di progetti non realizzati, d'investimenti di tempo, denaro ed energie che vengono dispersi senza lasciare tracce». Il cinema è un'arte dispendiosa, sottoposta a condizionamenti economici e sociali. Per ogni capolavoro letterario rimasto nel cassetto, ci sono sicuramente almeno cinque sceneggiature di film grandiosi che non hanno visto la luce, dal Cuore di tenebra di Orson Welles al Napoleon di Kubrick, passando per la Recherche di Visconti. Si tratta di film abortiti che ci sono pervenuti solo in forma cartacea, ma che osserva sempre Brunetta ricoprono «un ruolo determinante nell'opera e nella poetica di un autore». Ermanno Olmi decise di realizzare una versione cinematografica del Sergente nella neve nel 1959, a sei anni dall'uscita del libro. Avrebbe potuto essere il suo terzo lungometraggio, dopo Il tempo si è fermato (1959) e Il posto (1961). L'operazione, che ancora nei primi anni Settanta Olmi cercava di avviare, non partì prima di tutto per ragioni finanziarie. Basta leggere l'elenco delle comparse, del materiale di scena e degli effetti speciali necessari per le riprese, riportato al fondo del volume, per rendersi conto che si trattava di un'impresa assai dispendiosa: «Katiuscia in partenza e colpi in arrivo. Scoppi di mortaio nei villaggi. Villaggio in fiamme con mulino. [ ] 4 aerei russi da caccia IN VOLO. 4 carri armati russi. 3 carri cingolati russi. [ ]10.000 uomini per 2 settimane». In qualche modo, si trattava anche di un'operazione assai poco olmiana, lontana da quella «economia francescana» sono ancora parole di Brunetta che caratterizza il cinema del maestro. Tutto quello che è rimasto di anni di lavoro e speranze è appunto il copione, ora pubblicato da Einaudi, unitamente al summenzionato saggio di Brunetta e a un ricco inserto iconografico, con bozzetti e fotografie scattate durante i soparalluoghi, realizzati in Italia e Slovenia tra il 1959 e il 1960. Come scrive Pauline Kael nel suo Citizen Kane Book, quando si legge lo script di un film già realizzato è impossibile ignorare le immagini impresse sulla pellicola, e nella nostra mente. Ma anche quando si legge uno script che non è stato girato, scatta un meccanismo simile: inevitabilmente, si pensa ad altri film, in primo luogo dell'autore, ma anche di altri registi, nel tentativo di colmare il vuoto con cui ci si scontra leggendo una sceneggiatura. Leggere una sceneggiatura, infatti, significa trovarsi di fronte a un testo intrinsecamente manchevole, un testo che ne prefigura un altro, fatto di una materia diversa. Il film di Olmi sarebbe dovuto iniziare con alcuni alpini, chiusi in uno dei rifugi di un caposaldo perso nella steppa, che armeggiano attorno a una rudimentale macina. Stanno preparando la farina per fare la polenta. Hanno fame, ma hanno soprattutto bisogno di fingere di essere a casa, di cui l'antico rito contadino della preparazione della polenta è ovvia metafora. Le prime righe della sceneggiatura indicano che lo spettatore non deve capire dove si trovano i personaggi: la macchina da presa mostra solo primissimi piani e dettagli. Allo spettatore è dato cogliere unicamente i volti e le voci dall'inflessione dialettale di un gruppo di montanari nel Nord-Est. La scena non può non far pensare all'Albero degli zoccoli (1978). Ma questi uomini radunati attorno a un marchingegno capace di dispensare cibo e felicità, che aspettano ansiosi di verificare se funziona («tutti sono in attesa di veder spuntare dal di sotto la farina, quasi fosse un piccolo miracolo»), ricordano anche i kolchoziani assiepati attorno alla scrematrice meccanica ne Il vecchio e il nuovo (1929) di Ejzentejn. Poi uno degli uomini esce per lavare nella neve il paiolo in cui far bollire l'acqua, e viene ucciso dalla fucilata di un cecchino. Solo a questo punto lo spettatore capisce che non siamo sull'altopiano di Asiago, ma nella steppa russa. E' un inizio spiazzante, che catapulta d'improvviso il pubblico nella realtà di uno degli episodi più cruenti dell'esperienza italiana durante il secondo conflitto mondiale, il ripiegamento del corpo d'armata alpino attraverso la sacca del Don. Per mezzo della catabasi del sergente maggiore Rigoni Stern e dei suoi compagni, Olmi racconta non solo l'eroismo silenzioso del mondo contadino, un'etica del sacrificio che è tutt'uno con la tradizione del corpo degli alpini, ma mette in scena anche quella che Mario Isnenghi, in un libro di qualche anno fa, ha chiamato la "tragedia necessaria", la catastrofe che periodicamente segna la storia italiana (Isnenghi si concentrava su Caporetto e l'Otto settembre), e mette in luce la cronica frattura tra ceti dirigenti e masse popolari che caratterizza il nostro paese. Nel mezzo dello sfascio generale, il sergente non viene meno al suo dovere e tiene uniti gli uomini al suo comando, sforzandosi di conciliare il buon senso e lo spirito della solidarietà con le asprezze del mestiere delle armi, una scienza crudele di cui non possono fare a meno, se vogliono tornare a casa. Ma alla fine, a vincere sarà la mitezza del mondo contadino. La ritirata si trasforma in una rotta, gli uomini muoiono uno dopo l'altro, e il protagonista si ritrova a marciare solo e disperato. Il film si sarebbe dovuto concludere con la scena in cui il sergente è ospite di una famiglia russa in un'isba. La ritirata è terminata, il sergente è scampato alla morte, ma le ferite dello spirito sono ancora aperte. Solo nel gesto della giovane contadina che «abbassa gli occhi in una sorta di pudore paesano» sembra esserci una possibilità di redenzione dalla violenza della guerra. Giaime Alonge
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