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Durante la Grande Guerra, quando certe posizioni apparivano imprendibili, soprattutto in montagna, si ricorse alla guerra di mine, cioè a uno scavo che portasse sotto la posizione avversaria dove, in una apposita camera, si ammassava esplosivo, fatto poi esplodere. Il risultato era sempre spettacolare, con la vetta che cambiava completamente fisionomia, la conquista della posizione, insomma un gran dispendio di forze e di esplosivo per impossessarsi spesso di soli pochi metri. Accadde così il 23 settembre del 1916 per il Monte Cimone (m. 1.226 slm); alla sua occupazione si attribuiva una grande importanza, come accadde per il Pasubio, nella convinzione, rivelatasi poi infondata, che da lì fosse facile scendere nella pianura veneta. Rivelatisi infruttuosi e con ingenti perdite gli attacchi austriaci, questo vennero alla determinazione di impossessarsi della vetta con una colossale mina. Di questo parla Sepolti vivi, un libro di storia, ma raccontato dall’autore con l’agilità e la capacità di attrazione di un romanzo. Ben strutturato, c’è una parte propedeutica relativa alla riconquista italiana del Cimone per arrivare alla decisione austriaca di impadronirsene con una guerra di mina, dopo i sanguinosi e infruttuosi contrattacchi; infine c’è la fase vera e propria dello scoppio e delle conseguenze, non ultime il vano tentativo di ottenere una tregua per tirar fuori dalla terra i numerosi nostri soldati ivi sepolti e ancora vivi. Grazie alle testimonianze di chi era lì, e mi riferisco soprattutto al tenente Fritz Weber, autore di numerose opere sulla Grande Guerra, e al cappellano militare austriaco Bruno Spitzl, ma anche per la capacità di raccontare esprimendo stati d’animo, timori, angosce dei militari degli opposti eserciti, Alberto Di Gilio riesce a trasmettere al lettore un sentimento di autentica pietà per questi combattenti.
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