Indice
Le prime pagine del romanzo
Abidos, Egitto
1335 a.C., diciassettesimo anno del regno del faraone Akhenaton
La luna piena gettava un bagliore azzurro sulle sabbie d’Egitto, tingendo le dune del colore della neve e i templi abbandonati di Abidos dei toni dell’alabastro e dell’avorio. Sotto quella luce cruda si muovevano alcune ombre, una processione di intrusi che si faceva strada attraverso la Città dei Morti.
Procedevano con andatura grave, in tutto trenta fra uomini e donne, i volti coperti dai cappucci delle ampie tuniche, gli occhi fissi sul sentiero davanti a loro. Superarono le camere sepolcrali dei faraoni della Prima dinastia, poi i templi e i monumenti costruiti nel Secondo periodo per onorare gli dei.
All’altezza di un crocevia polveroso, dove la sabbia copriva il sentiero di pietra rialzato, il corteo si arrestò in silenzio. L’uomo in testa al gruppo, Manu-hotep, scrutò nel buio e tese l’orecchio, piegando il capo mentre stringeva la presa sulla lancia.
«Hai sentito qualcosa?» domandò una donna, che gli si era avvicinata lentamente.
Era sua moglie. Dietro di loro c’erano molte altre famiglie, oltre a una decina di servitori che trasportavano lettighe con i corpi dei figli di ciascuna. Tutti falciati dalla stessa misteriosa malattia.
«Voci», rispose Manu-hotep. «Sussurri.»
«Ma la città è abbandonata», replicò lei. «Con il decreto del faraone, accedere alla necropoli è diventato reato. Persino noi rischiamo la morte mettendo piede su questo terreno.»
Lui abbassò il cappuccio del mantello, scoprendo una testa rasata e una collana d’oro, segni distintivi dei membri della corte di Akhenaton. «Nessuno lo sa meglio di me.»
Per parecchi secoli, Abidos, la Città dei Morti, era stata una località prospera, popolata da sacerdoti e seguaci di Osiride, sovrano dell’oltretomba e dio della fertilità. I faraoni della Prima dinastia erano stati sepolti lì e, sebbene i re di epoche successive avessero trovato sepoltura altrove, tutti facevano ancora erigere templi e monumenti in onore di Osiride. Tutti tranne Akhenaton.
Poco dopo essere diventato faraone, Akhenaton aveva fatto l’impensabile: aveva rinnegato gli antichi dei, sminuendone l’importanza tramite decreto, per poi destituirli, gettando il pantheon egizio nella polvere e sostituendolo con un unico dio scelto da lui: Aton, il dio Sole.
Per questa ragione, sacerdoti e fedeli avevano lasciato già da tempo la Città dei Morti, che adesso era dunque abbandonata. Chiunque fosse stato sorpreso all’interno dei suoi confini sarebbe stato giustiziato. Per i membri della corte del faraone come Manu-hotep, la punizione era ancora più severa: torture atroci finché non avessero pregato e implorato la morte.
Manu-hotep stava per parlare, quando avvertì un movimento. Tre uomini armati emersero dall’oscurità e si precipitarono verso di loro con le armi in pugno.
Manu-hotep spinse la moglie nel buio e scagliò la propria lancia, che trafisse il petto del primo aggressore, arrestandone bruscamente la corsa. Il secondo, però, gli si avventò contro con un pugnale di bronzo.
Piegandosi per evitare il fendente, Manu-hotep cadde a terra. Liberò la lancia e tentò di colpire il secondo assalitore, il quale arretrò, benché l’arma non lo avesse raggiunto. La punta di una seconda lancia conficcata nella schiena gli sporgeva dall’addome. L’uomo ferito si accasciò, inginocchiandosi e boccheggiando, senza riuscire a gridare. Quando cadde, il terzo assalitore stava già scappando a gambe levate.
Manu-hotep si alzò e, ruotando il busto con decisione, scagliò la lancia. Lo mancò di pochissimo, e il bersaglio in fuga sparì nella notte.
«Saccheggiatori di tombe?» domandò qualcuno.
«Oppure spie», rispose Manu-hotep. «Sono giorni che ho la sensazione che qualcuno ci stia seguendo. Dobbiamo sbrigarci. Se quell’uomo andrà a informare il faraone, non vedremo nemmeno l’alba del nuovo giorno.»
«Forse dovremmo andarcene. Forse stiamo commettendo uno sbaglio», suggerì la moglie.
«Lo sbaglio è stato seguire Akhenaton», disse Manu-hotep. «Il faraone è un eretico. Osiride ci sta punendo per essere rimasti con lui. Avrai senz’altro notato che soltanto i nostri figli si addormentano per non risvegliarsi mai più, e che solo il nostro bestiame giace senza vita nei campi. Dobbiamo supplicare Osiride di avere pietà di noi. E dobbiamo farlo ora.»
Man mano che Manu-hotep parlava, la sua determinazione cresceva.
Durante il lungo regno di Akhenaton, ogni resistenza era stata soffocata con la forza delle armi, ma gli dei avevano cominciato a vendicarsi a modo loro, e quanti si erano schierati con il faraone pativano pene terribili.
«Da questa parte», disse Manu-hotep.
Continuarono a addentrarsi nella città immersa nel silenzio, e presto raggiunsero l’edificio più imponente della necropoli, il tempio di Osiride.
Ampio e con il tetto piatto, era circondato da alte colonne che si innalzavano da enormi blocchi di granito. Una grande rampa conduceva a una piattaforma di pietra ornata da sublimi incisioni. Marmo rosso dell’Etiopia, granito frammisto a lapislazzuli blu della Persia. Sulla facciata del tempio si aprivano due enormi porte di bronzo.
Manu-hotep le raggiunse e le aprì con sorprendente facilità. Fu investito da un odore di incenso e rimase stupito nel vedere un fuoco di fronte all’altare e fiaccole alle pareti. Nella luce tremolante, riuscì a scorgere diverse panche disposte a semicerchio, sulle quali giacevano cadaveri di uomini, donne e bambini, circondati dai membri delle loro famiglie e dal suono smorzato di pianti sommessi e preghiere sussurrate.
«A quanto pare non siamo gli unici a violare il decreto di Akhenaton», osservò Manu-hotep.
Le persone all’interno del tempio lo guardarono, senza reagire.
«Svelti», disse ai suoi servitori.
Entrarono uno dietro l’altro e posarono i corpi dei bambini dove trovarono spazio, mentre Manu-hotep si dirigeva verso il grande altare di Osiride. Quando fu accanto al fuoco, si inginocchiò e abbassò la testa, inchinandosi in un gesto di supplica, poi tirò fuori dalla tunica due piume di struzzo.
«Gran Signore dei Morti, ci presentiamo al tuo cospetto afflitti dal dolore», mormorò. «Le nostre famiglie sono tormentate dalla sofferenza. Le nostre case sono state maledette e le nostre terre non sono altro che paglia senza valore. Ti chiediamo di prendere i nostri defunti e benedirli nell’oltretomba. Tu che controlli i Cancelli della Morte e che ordini al grano di rinascere dal seme caduto, ascolta la nostra supplica: fai tornare la vita nelle nostre terre e nelle nostre dimore.»
Con riverenza posò a terra le piume, vi spruzzò un miscuglio di polvere di silice e oro e indietreggiò, allontanandosi dall’altare.
Si levò una folata di vento che investì le fiamme, e il rombo fragoroso che seguì riecheggiò nel tempio.
Manu-hotep si voltò giusto in tempo per vedere le enormi porte in fondo al tempio chiudersi bruscamente. Si guardò intorno, nervoso, mentre le fiaccole sulle pareti tremolavano, minacciando di spegnersi. Tuttavia rimasero accese e ben presto ricominciarono ad ardere con decisione. Ora che la luce illuminava di nuovo il luogo sacro, Manu-hotep vide il contorno di numerose figure dietro l’altare, dove fino a pochi attimi prima non c’era nessuno.
Quattro di loro indossavano abiti di colore nero e oro: sacerdoti del culto di Osiride. Il quinto era vestito in maniera diversa; sembrava il Signore degli inferi. Gambe e fianchi erano avvolti nel tessuto utilizzato per mummificare i defunti. I bracciali e la collana d’oro risaltavano sulla sua pelle verdastra, e una corona decorata da piume di struzzo gli adornava la testa.
In una mano reggeva un bastone da pastore e nell’altra una frusta d’oro, simile a quelle che servivano a battere il grano e separare i chicchi vitali dalla pula ormai sterile. «Sono il messaggero di Osiride», disse il sacerdote. «L’incarnazione del Gran dio dell’oltretomba.»
La sua voce era profonda, sonora, il suo tono quasi ultraterreno. Nel tempio tutti chinarono il capo, e i sacerdoti avanzarono. Si misero a camminare intorno ai cadaveri, spargendo foglie, petali e quella che a Manu-hotep sembrò pelle secca di rettili e anfibi.
«Tu cerchi il conforto di Osiride», disse l’incarnazione.
«I miei figli sono morti», replicò Manu-hotep. «Ciò che cerco è benevolenza nei loro confronti nell’aldilà.»
«Tu sei al servizio del traditore», fu la risposta. «Questo fa di te un essere abietto.»
Manu-hotep tenne la testa china. «Ho permesso alla mia lingua di svolgere il lavoro di Akhenaton», ammise. «E per questo potete punirmi con la morte. Ma portate i miei cari nell’aldilà, così come era stato promesso loro prima che Akhenaton ci traviasse.»
Quando Manu-hotep ebbe il coraggio di alzare lo sguardo, scoprì di avere gli occhi neri dell’incarnazione fissi su di sé.
«No», disse infine quella. «Osiride ti ordina di agire. Devi dimostrare il tuo pentimento.»
Un dito ossuto indicò un’anfora rossa sull’altare. «Quel vaso contiene un veleno insapore. Prendilo e versalo nel vino di Akhenaton. Gli oscurerà gli occhi privandolo della vista. Non potrà più ammirare il suo prezioso sole, e il suo regno si sgretolerà.»
«E i miei figli?» domandò Manu-hotep. «Se accetto, troveranno benevolenza nell’oltretomba?»
«No», rispose il sacerdote.
«Ma perché? Credevo che...»
«Se scegli di imboccare questa via», lo interruppe, «Osiride ordinerà che i tuoi figli ricomincino a vivere in questo mondo e trasformerà nuovamente il Nilo in un Fiume della Vita, così che i vostri campi tornino fertili. Accetti questo onore?»
Manu-hotep esitò. Disobbedire al faraone era un conto, ma accecarlo...
Mentre lui tentennava, il sacerdote si mosse di scatto, lanciando la frusta sulle fiamme accanto all’altare. I trefoli di pelle di cui era munita presero fuoco, come se fossero ricoperti d’olio. Con un colpo secco del polso, il sacerdote fece schioccare la frusta verso il basso, gettandola tra la pula e le foglie morte sparse dai suoi seguaci. Una linea infuocata sfrecciò lungo quel percorso, che si incendiò all’istante, fino a racchiudere sia i vivi sia i morti in un cerchio di fiamme.
Le onde di calore costrinsero Manu-hotep a indietreggiare. Il fumo e le esalazioni divennero così insopportabili da annebbiargli la vista e farlo vacillare. Quando alzò la testa, un muro di fuoco lo separava dai sacerdoti che se ne stavano andando.
«Cos’hai fatto?» gridò sua moglie.
I sacerdoti svanirono dietro una scala alle spalle dell’altare. Le fiamme arrivavano ormai all’altezza del petto dei presenti, e tanto i morti quanto coloro che li piangevano erano intrappolati in un circolo infuocato.
«Ho esitato», mormorò. «Ho avuto paura.»
Osiride aveva dato loro una possibilità, e lui l’aveva sprecata.
Con la mente attanagliata dall’angoscia, Manu-hotep gettò uno sguardo all’anfora con il veleno sull’altare. Gli appariva sfocata per il calore, poi sparì dalla sua vista quando il fumo lo avvolse.
Svegliatosi, Manu-hotep vide un raggio di luce filtrare dai pannelli aperti sul soffitto. Il fuoco si era spento, sostituito da un cerchio di cenere. L’odore di fumo era rimasto, e un sottile strato di fango rivestiva il pavimento, come se la rugiada mattutina si fosse mescolata alla cenere o come se fosse scesa una pioggerella brumosa.
Debole e disorientato, Manu-hotep si mise a sedere e si guardò intorno. Le enormi porte in fondo alla stanza erano aperte e lasciavano entrare la fresca brezza mattutina. Alla fine i sacerdoti non li avevano uccisi. Ma perché?
Mentre cercava una spiegazione, una piccola mano dalle dita minuscole gli si mosse accanto. Lui si voltò e vide sua figlia tremare come in preda alle convulsioni; apriva e chiudeva la bocca, sembrava cercasse disperatamente di respirare, simile a un pesce sulla sponda del fiume.
Manu-hotep si protese verso di lei. Anziché essere fredda e rigida, era calda e si muoveva. Non riusciva a crederci. Anche suo figlio si stava muovendo, e scalciava proprio come un bambino immerso in un sogno.
Cercò di farli parlare, di far cessare quel tremore, ma invano.
Intorno a loro, altre persone si stavano svegliando in condizioni simili.
«Ma cos’hanno tutti?» domandò sua moglie.
«Devono essere intrappolati tra la vita e la morte», ipotizzò Manu-hotep. «Chi sa quanto staranno soffrendo...»
«Cosa facciamo?»
Stavolta non ebbe tentennamenti. «Facciamo ciò che Osiride ha ordinato», rispose. «Accecheremo il faraone.»
Si alzò e, correndo tra la cenere, raggiunse l’altare. L’anfora rossa con il veleno era ancora lì, annerita dalla fuliggine. Manu-hotep la afferrò, con un gesto deciso e convinto. Gonfio di speranza.
Tutti lasciarono il tempio, in attesa che i loro figli riuscissero a parlare, a rispondere o anche solo a stare fermi. Sarebbero trascorse settimane prima che ciò accadesse e mesi affinché coloro cui era stata restituita la vita tornassero com’erano prima del tempo trascorso nella stretta della morte. Ma per allora gli occhi di Akhenaton sarebbero stati ormai offuscati e il suo regno avviato verso il tramonto.