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Il libro è denso di concetti complessi direi da meditare ma scritti con una schiettezza e con una intima profondità che lasciano a bocca aperta. Tra le altre cose l'autore qui si mette a nudo come uomo che ha vissuto in prima persona il dramma dei campi di concentramento nazisti. Trovo le sue tesi illuminanti ed i suoi concetti sono talmente garbatamente netti che talvolta vengono riportati volutamente incompleti. Non avevo mai letto nulla dell'autore pertando "Il secolo infelice" ha avuto il merito di farmelo conoscere. Forse più che un saggio è da definire una raccolta di saggi e quindi di primo acchitto quel che vi è riportato, vari interventi e pezzi di un diario, sembra scollegato. Questa del formato è in effetti l'unica vera nota negativa.
Recensioni
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Nel saggio, elevato nello stile e denso nella sostanza concettuale, da cui prendono il titolo i diciotto interventi dello scrittore ungherese qui raccolti, si leggono affermazioni perentorie ma non contestabili: "È un dato di fatto che in questo secolo tutto è stato svelato, tutto almeno una volta ha mostrato il suo vero volto, tutto è diventato più vero. Il soldato si è trasformato in omicida, la politica in delinquenza, il capitale in una grande fabbrica di sterminio dotata di forni per bruciare i cadaveri, la legge è divenuta la regola di un gioco sudicio, la libertà del mondo si è trasformata nella prigione dei popoli, l'antisemitismo in Auschwitz, il sentimento nazionalista in sterminio dei popoli". Sembrerebbe che l'essere umano del nostro tempo si sia imposto di confermare la cupa annotazione di Kafka, secondo cui "la nostra mansione è compiere il negativo, il positivo ci è già stato dato".
Più avanti, però, la pagina profetica di Kertész accoglie un limpido raggio di luce: "L'uomo non è nato per svanire nella storia come un ingranaggio scartato ma per comprendere la propria sorte, per confrontarsi con la propria caduta e ora utilizzerò un'espressione fuori moda per salvare la propria anima. La prosperità dell'uomo, nel senso elevato della parola, si può trovare al di fuori della sua esistenza storica, ma non evitando le esperienze storiche, al contrario: vivendole, impossessandosene e immedesimandosi in esse. Solo la conoscenza può innalzare gli uomini al di sopra della storia; durante la presenza scoraggiante della storia totalitaria che ci priva di ogni speranza, l'unico rifugio dignitoso è la sapienza, l'unica cosa buona è la conoscenza". Ma quale conoscenza? Qui Kertész affianca al sostantivo un aggettivo di grande pregnanza (suoi i corsivi): "Sono convinto che la svalutazione della vita, la decadenza morale che sta devastando rapidamente la nostra era, sia causata dalla profonda desolazione la cui radice si cela nel rifiuto delle esperienze storiche e della conoscenza catartica che ne deriva". Perché catartica? Di quali specifiche colpe si deve purificare l'individuo di oggi, aggiungiamo noi, visto che come direbbe il Macbeth di Shakespeare ha dato "insegnamenti di sangue" fin dalla sua prima comparsa sulla terra?
Nel libro la risposta viene data a più riprese, ogni volta arricchita di sfumature argomentative diverse, ma chiunque abbia familiarità con questo grande moralista ebreo, scampato agli orrori di Auschwitz prima e a quelli del bolscevismo imperiale di Stalin poi, può agevolmente figurarsela: il crimine che ha macchiato l'anima del mondo in una maniera che non ha eguali nella storia dell'umanità è l'Olocausto: "In qualunque modo lo analizziamo, il fumo dell'Olocausto ha gettato un'ombra lunga e oscura sull'Europa, mentre le sue fiamme hanno lasciato segni incancellabili nel cielo". Questa frase, che leggiamo nel secondo saggio della raccolta, L'immortalità del lager, non poggia su una metafora suggestiva, ma su una verità di cristallina chiarezza: la sistematica, gratuita eliminazione di milioni di esseri umani è l'epifania del male a un livello quasi metafisico, tanto alto da rasentare l'ineffabile. Lo rasenta ma per fortuna non si identifica con esso, perché altrimenti la sua forza catartica andrebbe smarrita. Per inquietante paradosso l'Olocausto, "una parabola universale su cui è stato apposto il sigillo dell'eternità", è anche un patrimonio etico, "perché a costo di immense sofferenze ci ha portato a una conoscenza immensa e di conseguenza esso serba un immenso valore etico" (quinto saggio, L'Olocausto come cultura).
Deportato nel 1944 ad Auschwitz insieme ad altri settemila ebrei ungheresi, liberato l'anno seguente nell'altrettanto famigerata Buchenwald ("la mite selva di faggi" di cui canterà il nostro Quasimodo), Kertész ha posto l'esperienza del campo di concentramento, sua e altrui, a motore immobile della propria scrittura. Di qui il carattere semiautobiografico di tutta la sua produzione creativa, dal romanzo di esordio (Essere senza destino, 1975), fino a cimenti più noti: Fiasco (1988) e Kaddish per un bambino mai nato (1990), quest'ultimo vergato con la tecnica del "flusso di coscienza". Posto dal caso fra coloro che Primo Levi chiamerebbe "i salvati", Kertész non ha permesso che l'assegnazione del premio Nobel per la letteratura (2002) alterasse la sua esistenza: glielo impediva la dolente saggezza del sopravvissuto. Continua quindi a vivere in un microscopico appartamento di Buda, ma è sempre pronto a intervenire quando ritiene che la circostanza glielo imponga. Il saggio A chi appartiene Auschwitz? (il decimo della raccolta) contiene, per esempio, osservazioni molto acute sul film La vita è bella di Benigni, preferito all'altrettanto celebre Schindler's List di Spielberg (per lui tipico esempio di "conformismo dell'Olocausto"), perché vi palpita il pathos della grande tragedia, "talmente semplice e toccante che non si può non commuoversi".
Stefano Manferlotti
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