Diciamolo subito: questo nuovo romanzo di Vanni Santoni (classe 1978) non è una guida di Firenze (del resto, di guide al capoluogo toscano ne sono già state scritte fin troppe); è invece un'opera di pura letteratura, nella quale si parla sì di Firenze, ma di una Firenze lontanissima dagli stereotipi proposti e riproposti fino alla nausea dai baedeker. Il titolo stesso, mutuato da un celeberrimo sonetto di Cecco Angiolieri, indica, tra l'altro, la volontà di sbarazzarsi di una certa immagine monolitica, pomposamente monumentale, di Firenze, che vorrebbe ridurla a nostalgico luogo di culto di glorie passate e irripetibili. A questa Firenze un po' polverosa delle oleografie turistiche, Santoni contrappone un'altra Firenze, sotterranea e inquieta, teatro di avvincenti commedie umane che riflettono problematiche assolutamente attuali. E il fatto che l'autore non sia propriamente fiorentino (ma montevarchino) gli consente forse di osservare la città con maggiore lucidità di sguardo. Attraverso un'originale procedura narrativa, già efficacemente collaudata nei precedenti romanzi Personaggi precari (2007) e Gli interessi in comune (2008), Santoni costruisce il proprio libro accumulando progressivamente storie di personaggi diversi che potrebbero sembrare slegate e del tutto autonome, ma che, in realtà, sono segretamente intrecciate tra loro. Il romanzo comincia con un disorientato studente, il quale, dopo aver varcato le soglie del casello autostradale fiorentino, si lancia in un'impresa assai improba che assomiglia molto a un rito di iniziazione: raggiungere in macchina l'intricatissimo "reticolo di sensi unici e zone pedonali" del centro storico di Firenze. Dopo aver fatto diversi giri a vuoto, parcheggia (ovviamente pagando un pesante pedaggio) sotto la stazione di Santa Maria Novella e quindi si reca al Duomo: lì avrebbe un appuntamento con una ragazza conosciuta poco prima durante una sosta al piazzale Michelangelo ma questa non si presenterà, lasciandolo solo in mezzo a una folla di turisti. Lo studente che approda a Firenze è solo uno dei molti personaggi, perlopiù di giovane età, raccontati da Santoni. Ci sono i cosiddetti "gambrini", adolescenti un po' bulli e attaccabrighe che si ritrovano sotto i portici di piazza della Repubblica, dove una volta c'era il cinema Gambrinus; ci sono i giovani aspiranti scrittori che hanno fondato la rivista "maniaco"e si incontrano periodicamente per leggere e commentare le proprie sperimentazioni letterarie; c'è il pittore eroinomane Andrea Rossi, alias Ander, la cui casa è diventata il rifugio di pusher extracomunitari. Ne emerge un affresco romanzesco polifonico, che racconta la città da punti di vista diversi, talvolta contrapposti, e illustra diverse situazioni esistenziali, le quali però sono accumunate da un medesimo disagio, fatto di velleità e ambizioni frustrate. Molti giovani fiorentini affidano all'ambizione artistica coltivata nell'ambito della pittura, piuttosto che della letteratura o della fotografia l'unica speranza di riscattare un'esistenza ultraprecaria, che ha ormai smarrito ogni certezza: "Gli unici felici − afferma un personaggio del romanzo mi sembrano quelli che ancora si aggrappano all'idea di poter essere artisti", per poi domandarsi, retoricamente: "Che poi, artisti o no, ci si può davvero costruire un'esistenza indipendente, qui, senza doversi allacciare a un sistema di supporto vitale fatto di parentele, conoscenze, amicizie, relazioni per niente dinamiche?". L'avverbio "qui" si riferisce a Firenze, ma in questa domanda potrebbero forse riconoscersi anche molti giovani di altre città italiane (e non solo), alla ricerca di un'indipendenza che non sembra mai arrivare. D'altra parte Santoni non si interessa soltanto all'universo giovanile, ma mette in scena anche un personaggio più maturo, Leopoldo Ferretti, facoltoso professore di storia dell'arte, nonché massone. Ebbene, benché, sotto il profilo economico, sia ovviamente al riparo da ogni rischio, Leopoldo, come si vede dal suo rapporto con la figlia, non appare meno insicuro degli altri personaggi del libro. Ma in questo romanzo non c'è solo inquietudine, più o meno giovanile, ma anche ironia e leggerezza, come nella splendida digressione, che occupa quasi quattro pagine, sui panini al lampredotto (potrei sbagliarmi ma non mi risulta che nessuno scrittore avesse mai introdotto prima questa specialità culinaria fiorentina nella letteratura italiana). Se, per questo carattere sterniano e digressivo, il libro di Santoni potrebbe riallacciarsi al Collodi di I misteri di Firenze, per la complessità dell'orchestrazione narrativa l'autore sembra guardare soprattutto a certi grandi autori stranieri contemporanei, da Nabokov a Bolaño. Molto singolare è inoltre la traiettoria del tempo che scandisce la narrazione, che non assume, come di consueto, la forma lineare di una freccia, bensì quella circolare di un anello, laddove il finale si ricongiunge all'incipit, come un nastro che si riavvolge. Raoul Bruni
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