Paola Cereda, finalista al Premio Calvino 2009 con Della vita di Alfredo (Bellavite, Missaglia Lc 2009), dopo cinque anni ci fa dono di un altro delizioso breve romanzo. Lo stile è rimasto in certo modo il medesimo: preciso, garbatamente ironico con qualche folgorante accensione. Anche la visione del mondo non è mutata: l'interesse per l'umanità, soprattutto per chi subisce lo stigma della marginalità, uno stigma vissuto dai personaggi di Cereda quasi orgogliosamente. Un fondo di ottimismo, che non cancella tuttavia i problemi, accomuna ancora i due testi: in entrambi i microcosmi descritti (nella Vita di Alfredo un paesino della Brianza negli anni che segnano, nel secondo Novecento, il passaggio alla modernità industriale e consumistica, e un'isola del Sud fuori del tempo ‒ con fuggevoli guizzi su fascismo, guerra e dopoguerra ‒ in Se chiedi al vento di restare) non mancano pregiudizi, superstizione, inconsapevoli malizie e malvagità, ma questi universi non sono presentati come totalmente tetragoni al cambiamento né come ostili a una svolta misuratamente utopistica della storia (quella piccola perché la grande rimane sull'orizzonte, inattingibile dal comune operare). Il taglio è però diverso (e naturalmente anche il corredo dialettale della lingua, pervasivamente presente nel mondo di Alfredo): tutto sommato nel primo romanzo prevale, con i rilievi accennati, un interesse realistico, quello di raccontare il profondo Nord deturpato dai tanti leghismi viscerali, mostrare dall'interno la vicenda sociologica negli anni cruciali della grande mutazione, con uno sguardo comprensivo, con simpatia malgrado tutto. In Se chiedi al vento di restare prevale, invece, il momento fantastico, utopico. Questo lungo racconto (più che romanzo) è insieme fiaba, apologo, utopia. Si fa leggere d'un fiato, ci sono tanti personaggi e una vicenda che si fa seguire, ma il suo valore fondamentale risiede, oltre che nella lingua, nella capacità dell'autrice di dare sostanza narrativa a una visione del mondo altra. Nel libro non c'è violenza, non c'è sesso: non c'è violenza, se non quella che deriva dalla cieca volontà di benessere e di sfruttamento della natura; non c'è sesso, ma ci sono varie forme di amore ("Non si sarebbe mai più accontentata. Ecco cos'era l'amore", riflette Agata, la protagonista, ai primi segni di questo strano male, con incisiva profondità). Già questi tratti fanno di Se chiedi al vento di restare un libro inusuale che fuoriesce, senza complessi, dalla narrativa mainstream. La campitura è quella marina, mediterranea, eolica. L'isola non ha nome, è semplicemente l'Isola, spersa tra le acque e lontana dal continente, una collocazione che favorisce lo sviluppo della dimensione utopica. Su tale sfondo, con i suoi colori e i suoi odori, si muovono i personaggi, tutti, come vuole la legge delle fiabe, fissati in un'icona. Anche Agata, che vediamo prima bambina, poi adulta con precoci capelli bianchi, rimane sostanzialmente identica a se stessa nella sua orgogliosa solitudine onirica e, insieme, nel suo desiderio di compiacere, senza debolezza, gli altri (preparare tutti giorni per le undici precise la frittata di cipolle al padre fabbro, e, poi, per tutta la vita cucinare nella sua frugale locanda la misteriosa prelibata e seducente Salsa Agata, fil rouge del libro). Oltre al padre, appunto il Fabbro, alla bigotta zia Teresa e agli altri isolani, c'è una sorta di mago buono, il Bianco, il benevolente direttore del reclusorio (il Monte), c'è un mago cattivo, il Greco, ovvero il dottor Angelo Greco, prima ispettore del ministero degli Interni, poi rapace valorizzatore dell'isola, c'è lo zingaro Dumitru, domatore di animali selvaggi, innamorato di cavalli, e cavallerescamente innamorato di Agata. Con Dumitru entra con forza nella vicenda il mondo esotico del circo (nel suo piccolo, sogno e utopia realizzati). Il circo, come gli allegri marinai che frequentano l'isola, sono i segni visibili del favoleggiato mondo esterno nella sua valenza positiva, così come il Greco ne è il segno nella sua valenza aggressiva e impietosamente modernizzatrice. Ma il mondo esterno è presente anche con i carcerati, beneficati dal Bianco e dalle sue iniziative che rompono con la tradizione puramente cautelare del carcere. C'è, infine, Annunciata la figlia misteriosamente nata ad Agata, bambina che fiabescamente sa muovere i venti e le acque. L'apologo termina con il trionfo dell'ostinazione di Agata che non si è lasciata ammaliare dalle sirene della valorizzazione e vedremo come il progetto del Greco di trasformare definitivamente l'Isola in un patinato resort turistico fallisca in maniera rocambolesca, durante il folcloristico (e fasullo) battesimo marino dei suoi nuovi destini, nel corso del quale si affrontano, tra i marosi suscitati da Annunciata, due statue di sant'Elmo, protettore dell'isola, una in vetroresina illuminabile, l'altra in semplice gesso. Pacchiana modernità e rispettosa tradizione, ma si farebbe un torto al libro a immaginarlo come un bel proclama correttamente altermondialista. Non è così perché tutto è risolto narrativamente, e in modo accattivante, come possono talvolta essere le fiabe anche per gli adulti. Mario Marchetti
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