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Anno edizione: 2019
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"Non bisogna giudicare il buon Dio da questo mondo, perché è uno schizzo che gli è venuto male". Forse per eccesso d'umiltà verso se stesso, forse per rabbia verso i folli rovesci del sentire, ecco un uomo che capì presto il violento privilegio che gli aveva riservato la vita, la quale gli dette in dono un'anima abitata dai colori più intensi, più vivi, la cruda materia scottante del suo io più alto. Vincent non fece che nascondersi in quelle luci, in quei gialli dove il sole non era che la sua gola che urla sugli uomini e i petali lapilli del suo spirito che ruggivano sulle tele nel vulcanico tocco delle sue mani. Vincent cercava carezze, e le anelò fra i bruciori dei suoi pennelli. Ogni tratteggio non era che la lastra commossa di un disagio evidente, di un'incomprensione senza requie, di un tormento mai placato per non esser riuscito - in vita appunto - ad affermare il suo genio. Del quale era consapevole come pochissimi: "Ora riuscirò a fondere quegli ori e quei toni di fiori, il primo venuto non riesce a farlo, ci vuole tutta l'energia di un individuo" (gennaio 1889). Si procede così fra queste lettere, fra slanci e cadute, addii e riprese, tramonti e insonnie, resistenza e gesto. Dire che eguagliano i suoi quadri non è affatto una guasta esaltazione; è il nudo specchio dentro il quale lo spasmo di un blu o di un rosso, di un campo o di una stanza tentano di planare nell'illusa distensione di un periodo riuscito. Doloroso tormento, autentico contrasto interiore, la prova che solo il mancato ingravida il riuscito, oltre ogni affermazione riconoscimento. Non importa, si è stati se stessi, e il resto è una nera amarezza spremuta che scola commuovendo. Vincent aveva davvero il cielo stellato dentro di sé, l'incanto di una gioia frettolosa, agitata e quasi sempre destinata allo sfregio. I corvi neri non smisero mai di rodere il suo animo, di cingerlo col loro grido, di annientarlo. E queste lettere, non meno delle sue tele, sono tizzoni di vera, alta immortalità.
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