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Si tratta di una storia comparativa e culturale del concetto e della prassi rivoluzionari condotta a partire da un punto di vista radicalmente elitario. Viene cioè negato ogni valore alla rivoluzione democratico-sociale di cui è respinta anche la legittimità. La rivoluzione è cioè sempre prerogativa della cultura alta e di conseguenza prodotto delle élites. Traducendo la necessità di un riassetto dei vettori culturali e ideologici imposta dall'accelerazione della storia essa può essere condotta soltanto da coloro che ne percepiscono l'urgenza. In quest'ottica il 1688 e le sue repliche in Inghilterra la Rivoluzione americana il 1830 in Francia costituiscono dei modelli perfetti. È invece nella relazione fra le ideologie radicali concepite all'interno della cultura alta delle élites in particolare quella dei "letterati eterodossi" e l'ideologia popolare millenarista che va ricercata la ragione del "fallimento" delle rivoluzioni: da progetto politico delle élites esse divengono "speranza escatologica" delle masse. L'autore verifica tale paradigma analitico nell'Inghilterra dopo il 1648 in Francia a partire dalla primavera 1792 in Russia con l'autunno 1917. Per uscire dall'intolleranza dalla violenza e dal terrore innescati inevitabilmente dalla rivoluzione le strade percorribili sono soltanto due. La prima è quella della reazione: a Londra la conquista del potere da parte di Cromwell poi la Restaurazione del 1660; a Parigi il 9 termidoro e poi il 18 brumaio. La seconda è la "deriva continua fino al disastro finale" come ovviamente nella Russia bolscevica.
Francesco Cassata
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