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Recensioni pubblicate senza verifica sull'acquisto del prodotto.
Non male
Uno dei pochi libri che non sono riuscita a finire. Troppo a esclusivo uso e consumo del pubblico americano. A un certo punto l'ho trovato talmente faticoso che l'ho mollato senza rimpianti.
Uno dei miei libri preferiti in assoluto. Racconta con ironia il razzismo e la politica. Vincitore del Man Booker Prize nel 2016, è sicuramente un libro da leggere.
Recensioni
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Se non conoscete Paul Beatty, leggetevi Lo schiavista perché potrebbe restare il suo libro migliore, nonchè uno dei migliori romanzi americani degli ultimi anni (è finalista al Man Booker Prize, e il 25 ottobre 2016 scopriremo se ha vinto).
Potete prenderlo come la trascrizione in forma letteraria di uno show di Louis C.K. fatto da un afroamericano, o se avete smanie da filologi potete divertirvi a scovare tutti i riferimenti più o meno occulti. Insomma, leggetevelo come vi pare, e trovateci pure quello che volete: il nuovo Roth, il nuovo Swift, il Kraus americano, uno Zizek romanziere, o semplicemente uno scrittore bravissimo in grado di spostare parecchi chilometri più in là l’orizzonte asfittico e auto-celebrativo di un’ironia politicamente scorretta da social media, perché l’abilità di Paul Beatty – che è molto più di un’abilità, è il dono di uno scrittore – è sfondare le regole stesse dell’ironia e dei suoi bersagli.
Con Lo schiavista assistiamo al processo del protagonista di fronte alla Corte Suprema per aver ristabilito la schiavitù come esperimento sociale in un ghetto alla periferia di Los Angeles. Beatty non si limita a mettere in crisi l’accorata pantomima dei diritti civili – una nuova forma di religione più castrante della peggiore Inquisizione – ma ha l’audacia spietata di trasformarla in un paradosso distopico, senza però il salvacondotto della catarsi. Voto 5/5
Recensione di Veronica Raimo
Intervistato sulla Paris Review Paul Beatty ha detto una cosa che lì per lì può lasciare perplessi: ha dichiarato che definire comico il suo libro è sbagliato e che se i critici parlano tanto dell’umorismo lo fanno per evitare di affrontare argomenti più seri. A pensarci meglio si tratta di un’uscita beattiana al cento per cento e, oserei dire, molto comica. Con la vittoria del Man Booker la frase è rimpallata di sito in sito (Wikipedia compreso) e se andate a controllare nelle recensioni de Lo schiavista (Fazi, trad. di Silvia Castoldi) che sono state pubblicate dopo c’è sempre qualche accorto passaggio-mani-avanti del genere: “Lo schiavista è un libro che fa ridere e piangere allo stesso tempo”, oppure “ma a guardare bene la comicità di Beatty è profondamente tragica”. Da parte di un libro che non fa altro che sezionare, setacciare, triturare la coscienza dell’uomo comune (“nero, bianco, marrone, giallo, rosso, verde o viola”), che ribalta ogni mattoncino costitutivo del conformismo politico, ogni stereotipo razziale-morale, ogni vieto postulato della ragion pratica, per un autore così dispettosamente sovversivo, solleticare il pudore etico della medietà fino a farlo uscire allo scoperto è davvero “il punto”, ed è quello che Beatty ha fatto anche nell’intervista.
Tutto questo in sé sarebbe già abbastanza serio, ma ne Lo schiavista ci sono anche contenuti e argomenti che potrebbero essere illustrati in un austero saggio di ‘critical race theory’. In questo senso rinviamo all’altro libro che ha fatto scalpore in questa fase post-fergusoniana e movimentista -di cui tra l’altro abbiamo parlato su Linus di settembre- ovvero Tra me e il mondo di Ta-Nehisi Coates. Quanti commentatori forti di quella lettura si sono erti dai loro loculi social a condannare le ingiustizie razziali? Be’ difficilmente riusciranno a farlo con questo libro senza suonare falsetti. Nessuno spazio per lo sdegno moralista, nessuna speranza per la sussunzione del politically correct: qua si tratta di roba molto più instabile. Anche perciò mi sembra un’ottima lettura questa storia strampalata di un cittadino nero in un distretto immaginario di L.A. che fa il coltivatore (tra le altre cose di angurie cubiche e marijuana) e che finisce per ristabilire la segregazione razziale con buoni risultati. In mezzo s’incontrano personaggi splendidi, situazioni surreali e una satira così imprevedibile che l’intelligenza del lettore traballa, viene astutamente aggirata, crolla, e ciò che resta è quello scarico di energia montante dal diaframma alla cavità orale che chiamiamo riso. Ogni tanto i riferimenti sfuggono, a volte non stiamo dietro al narratore, come con certi stand-up comedian americani (direttamente evocati nel memorabile finale del libro) la raffica è troppo serrata, perdiamo il ritmo e ci blocchiamo nel flusso di frasi e freddure come: “Ne ho avuti anch’io di registi che mi dicevano: ‘Abbiamo bisogno di più nero in questa scena. Puoi farla più nera?’. Allora tu gli dici: ‘Vaffanculo, razza di stronzo razzista!’. E loro: ‘Esatto, non perdere questa intensità!’». Ma questa è l’ultima delle difficoltà, perché lo schiavista è effettivamente un libro difficile.
Se è vero come dice ancora Beatty in quella intervista che “a volte uno ride per non piangere, a volte uno ride per non sparare”, noi lettori bianchi, occidentali ecc. potremmo e anzi dovremmo domandarci al posto di cosa stiamo ridendo. La mia impressione è che si tratta di un riso-repulisti, un riso che fa tabula rasa: Lo schiavista ti fa ridere e poi ti fa sentire in colpa perché hai riso, per poi farti ridere anche di questo senso di colpa, e così via. Fino al momento di cominciare a ragionare.
Recensione di Carlo Mazza Galanti
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