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Lo scellerato marcisce in fortezza. Divagazioni sul conte Felicini, gaglioffo bolognese castigato in Toscana - Gigi Monello - copertina
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Lo scellerato marcisce in fortezza. Divagazioni sul conte Felicini, gaglioffo bolognese castigato in Toscana - Gigi Monello - copertina

Descrizione


24 Luglio 1672, Domenica mattina: termina a Fivizzano la carriera criminale di Giuseppe Maria Felicini, mandante di undici omicidi nonché di una interminabile sfilza di malefatte minori. Catturato dai gendarmi del Granduca, viene portato a Volterra, carcere di stato, dove rimane sino alla morte, nel 1715. Paga con 43 anni di galera una vita di soperchierie. Raccontata l'ultima volta nel 1919, la storia quasi dimenticata di un legno storto nell'Italia del '600.
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Dettagli

2016
30 luglio 2016
64 p., ill. , Rilegato
9788890677519

Valutazioni e recensioni

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Don Paolino
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Cos’è più giusto fare con un losco tipaccio, un’anima nera, un prepotente del secolo decimosettimo che abbia passato buoni 25 anni a tormentare il prossimo con botte, soprusi, rapimenti e ammazzamenti? La fisica espulsione da questo mondo con gentili mezzi da taglio o soffocamento; o 43 anni di lunghissima restrizione in tetra fortezza toscana (Volterra), nove dei quali trascorsi nel fondo senza luce di una umidissima torre? È l’interrogativo sviluppato nel 3° capitolo di questo piccolo ma denso libretto, dove, con uno stile da divertimento analitico e un tocco di ambientazione scenica, l’autore dà alternativamente voce ai sostenitori dell’annientamento e a quelli della carcerazione perpetua. Chi ha ragione? Quando si potrà dire di averla fatta adeguatamente pagare ad un gaglioffone? Se si pensa alla ordinaria fisiologia, perorano gli annientatori, alle ritmiche, fisiche gratificazioni che scandirono quella infinita serie di giornate (15.815), si dovrebbe concludere che il dimenticatissimo italo-prepotente Giuseppe Maria Felicini da Bologna, ebbe fortuna, rimediò il meno peggio, la sfangò. La sua carcassa funzionò; prigioniera, ma funzionò: respirò aria, masticò, sfiatò, tossì, sbadigliò, prese sonno; gustò minestre, stufati e minestroni: “fece il bolo, il chimo, il chilo e lo stronzo”. Diede insomma la fregatura finale alle sue vittime; putrefatte nella fossa. Cosa opinabile a sentire gli antagonisti, i reclusionisti, secondo i quali una vita illanguidita, privata di quel minimo di varietà che ogni umano crede dovuta, è castigo assai peggiore della morte, tormento prolungato, spina più bruttacchiona. L’autore fa uscire dalle tenebre del ‘600 un limpido esempio di farabutto, un vero paradigma incarnato: cambiano le forme ma il tipo resta; e attraversa le epoche. Ecco perché certe sugose parole come “gaglioffo”, servono: se proprio non c’è modo di estirparne il seme, si veda per lo meno di educare a riconoscerlo in tempo. A mezzo vocabolario.

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