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“Scavare” si legge in un giorno (o una notte). Questo lungo e intenso monologo tra il protagonista e il suo amico e rivale non lascia pause al lettore, ti spinge a continuare pagina dopo pagina. È la storia di un rapporto molto intenso e doloroso, raccontata senza artifici, senza correzioni o smussamenti, senza giudizi. La crudeltà, il cinismo, le emozioni più violente, sono sincere, senza veli. La scrittura è sublime e densa, la tecnica scelta è perfetta. Ma è un libro difficile da leggere, prende lo stomaco e non per immedesimazione, forse per l’esatto opposto. Un esordio incredibile.
Biografia di un’amicizia. È un libro feroce ma anche un lirico (mancato?) atto d’amore. Del resto amore e amicizia sono figure geometriche in cui uno o più lati combaciano. E che si tratti di un rapporto d’amicizia maschile, delinearne il perimetro diventa ancor più periglioso perché subentra il confronto, la condivisione, la rivalità e tutto quello che ne può conseguire. Ho trovato azzeccata la descrizione di una Bologna falso progressista, di una gioventù ipocritamente impegnata e di un mondo culturale gretto (a tal proposito ci sono dieci righe che illustrano meravigliosamente gli ultimi trent’anni di narrativa editoriale italiana).
Stile ampolloso, ricercato, ma artefatto. Chi è che parla in questo modo nel 2020?! Ma soprattutto, fa ancora più specie pensare che si tratti di un esordio di un millenial. Bella la scelta delle pagine da tagliare!
Recensioni
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Il romanzo d’esordio di Giovanni Bitetto ha l’aria di essere il frutto di un lungo lavoro. Scavare è il soliloquio di un maturo scrittore nichilista. Il suo rivale, un filosofo marxista di fama mondiale, è morto, e lo scrittore vuole porgergli l’ultimo, definitivo saluto rievocando la storia del loro rapporto, storia di una vita intera. Un racconto fatto di frammenti di memoria, riflessioni e discorsi, che si dipana nel tempo di tutta una notte, quella del funerale.
Un lavoro lungo, dicevo, perché la prima cosa che cattura l’occhio e l’interesse del lettore è la cura della lingua. La voce del narratore prende corpo in un tono alto, letterario, in una prosa attentissima e che fa marciare il romanzo su un livello stilistico decisamente notevole e interessante. Perfetto specchio, oltretutto, della personalità del narratore: uno scrittore che ha fatto della rivalità il suo spirito vitale, un cinico perfezionista che imprime nelle pagine la frusta delle sue aspirazioni, della sua ossessione per l’altro intellettuale, il filosofo. Ferocia, arrivismo, ascesa e autoaffermazione sono infatti i meccanismi portanti di questa narrazione, che è un monologo, ma è anche invettiva, orazione, memoir e inno alla morte e al nulla. La storia prende piede dall’adolescenza del narratore, dall’incontro casuale, violento e apparentemente senza significato con un ragazzo taciturno, che soffre di una malformazione alla vescica. Quel momento invece costituisce la nascita, il battesimo dell’io, un marchio definitivo che nemmeno la distanza dei percorsi diversi (anzi opposti) intrapresi può raschiare via.
Il rapporto tra i due è complesso da sempre. I giovani diventano presto amici… Se di amicizia si può parlare. La loro è un’unione che, però, non è comunione. È una condivisione di momenti, esperienze e lutti, fredda, non compartecipata; cerebrale decisamente più che emotiva: una «congiunzione di patetiche solutidini». La relazione si cristallizza poi sui sentimenti della rabbia e dell’agonismo intellettuale nel momento in cui entrambi lasciano la periferia pugliese per iniziarsi alla vita universitaria bolognese: l’amicizia diventa così un contrattempo sulla strada della propria realizzazione. Soprattutto da parte del narratore, il quale – il suo orgoglio mai gli permetterebbe di affermarlo – esiste grazie all’altro che, nella sua fantasmatica presenza, pungola la sua altrimenti incolore esistenza con gli stimoli della concorrenza. Ogni traguardo raggiunto urla la richiesta di attenzioni e riconoscimento da parte del filosofo il quale, francamente, non sembra curarsene granché.
Ed è qui che entra in gioco un altro elemento interessante di Scavare, ovvero l’attendibilità del narratore. Il suo racconto è «la mia versione», ovvero una ricostruzione che rischia di essere falsata fin dall’inizio. Nel testimoniare l’amico, in realtà non fa altro che relegare la sua verità alla propria visione del rapporto, alla propria sensibilità, al proprio ego. L’altro, nella notte, è presente nell’assenza, ma non ha voce, non può controbilanciare la versione del narratore, pur essendone il protagonista. Anzi, presto la sua invocazione diventa il veicolo con cui il narratore riporta sulla pagina i suoi, di fantasmi: i suoi tormenti, i suoi lutti, la sua visione nichilista e scatologica (non a caso il suo romanzo d’esordio si intitola La contemplazione della merda), di cui però il filosofo marxista appare sempre come l’inesorabile, pendente ago della bilancia.
La rivalità, allora, come bisogno esistenziale. Dire il nulla perché, a sua volta, l’altro è convinto del contrario. Il nichilista scrive la sua esistenza sulla materia fecale, sullo scarto, su quello che viene espulso ed eliminato; il marxista attraverso la prassi, l’atto, il segno positivo. La bestiale aspirazione dell’io, che rimbalza contro l’impassibile intellettualismo del tu, il quale, come già accennato, sembra non custodire nessuna reputazione del primo. L’ossessione del narratore, allora, sottende la paura che in realtà il rivale esista solo nella propria testa, e la battaglia contro questa proiezione possa essere l’unico punto di riferimento per un’esistenza che non ha forma e senso se non nella sua fine.
Scavare è il romanzo di un autore di ultima generazione – anagraficamente e tematicamente parlando. Una generazione che narra senza luoghi e senza volti, senza corpi fisici, nonostante la topografia e le descrizioni; una famiglia in cui i padri e le madri sono svuotati di ogni contenuto, caduti, crollati e i figli sono «sopravvissuti all’alluvione», e si dimenano tra le macerie della realtà, senza però sentire il dovere di ricostruirla. Piuttosto, i loro occhi sono colmati da ciò che questa realtà urla senza dire, assordando e implodendo. Personalmente, credo che questa sarà l’identità della prossima nuova letteratura (se di identità si può ancora parlare), e l’esordio di Bitetto può esserne un araldo di spicco.
Recensione di Michele Maestroni
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