Accade di solito questo, poco prima che la fortuna critica di un qualche autore diventi ventura o addirittura moda e che il suo nome si depositi nel solco di un canone o ascenda all'olimpo delle alte tirature: si attraversa una fase punteggiata di riletture calorose, a tratti mitizzanti, dove la distanza critica si riaccosta a quell'ingenuità da cui, su tutti, Debenedetti la escludeva, come da una "zona preclusa" o un "paradiso perduto". Così per Gadda e più recentemente per Caproni. Ma nel caso di Praz, che in realtà non è mai stato abbandonato da un suo sceltissimo corpo di devoti, la conquista di un canone appare fatalmente più complicata: in alcuni casi particolarmente propizi la massificazione fatalmente si inceppa, il modello, insomma, non tiene. Da parte sua, lo studio che Dalmas dedica all'opera di Praz trattiene tutti i pregi di un lavoro dichiaratamente "di scoperta (o riscoperta) di un critico e di uno scrittore". Così, dalla prima pagina sgorga il fervore di chi abborda un mito, un "fuoriclasse" della letteratura che (come negarlo?) è "veramente super" nelle indagini sul gusto, come lo è il "Super Mario" nelle avventure al videogame. Poi, all'incanto segue la perizia di dipanare e ricucire lungo un confortevole asse cronologico, per primo, un'opera che si dà invece per echi e rispondenze, assieme alla lucidità necessaria per coglierne modelli, metamorfosi, refrains. E qui si è già oltre il puro "invito alla lettura", quando si tentano ad esempio conclusioni ulteriori sulla forma saggio, tanto innalzata da Praz, sulla scia di Charles Lamb, quanto soffocata, dopo, dalla logica economica dei generi. Ma, alla fine, una pagina di Praz su un interno stile impero potrebbe veramente finire nelle antologie per le scuole dello stato o di scrittura? E un gioiello come la Lettrice notturna apparire oggi in un'edizione economica? Un futuro consumo pop di Praz dovrà sicuramente molto a panoramiche critiche come questa, tese a aprire un'opera in sé tanto impegnativa e raffinata. Conto tuttavia per un simile successo le stesse probabilità che si hanno nel "contenere", "definire" o "sigillare" una persona viva e vegeta, magari spiritosa e intelligente: con un certo sollievo ben poche, tutto sommato. Praz colleziona epiteti e attributi dai suoi fedeli (il "prazzesco" di Wilson, il "sommo Anglologo" di Arbasino, l'"epicureo" di Ficara fino al "Super Mario" di Dalmas), proprio come se la sua letteratura, uscita da un erudito connaisseur di emblemi e arredi, ritornasse immancabilmente verso quel signore curioso che ha frequentato pressoché tutti i fondi antichi e i musei d'Europa. In un ennesimo parallelo sulle arti, il secolare adagio pittorico sull'identità tra opera e persona ("Ogni pittore dipinge se stesso") è la vera cifra delle sue pagine: anche più dello stile l'opera è l'uomo, una sua perpetua automimesi. Mentre descrive un giardino reale o letterario, un tripode imperiale o uno stucco rococò, anche quando allinea citazioni dai luoghi meno battuti, Praz parla di sé in prima persona, di un suo amore o di una sua mania, come se, in una prospettiva antiteorica e antimoderna, una piccola verità sull'intérieur fosse più vera quanto più materialmente consistente. La sua stessa letteratura è uno di quei curiosi ritratti il cui modello tiene la destra sul busto di un grande, una conferma tortuosa dell'umano: c'è sempre qualcuno che ricerca (e offre) la "saldezza" di un "punto d'appoggio nel perpetuo fluire del tempo". Daniele Santero
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