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2005
12 novembre 2005
124 p.
9788883061448

Voce della critica

La poesia di Roberto Rossi Precerutti esige lentezza. Come sempre. Una lentezza di lettura e rilettura (qualcosa di simile all'”ascolto”) che permetta di snidare attraverso il tempo tutto il tempo meditativo necessario il largo ventaglio di significazioni possibili. Occorre intanto vincere la tentazione di una lettura solamente trascinata da quel tanto di cantabile che la metrica di questi sonetti a unica arcata sembra imporre. Poesia come incanto carmen magia; certo. Ma già il controllo formale così netto del verso dovrebbe valere come segnale. “Qui la corona di bellezza qui / l'inesorabile ticchettio”. Questi versi della prima sezione tematizzano come meglio non si potrebbe l'idea di una tensione estetica che non può eludere il rigore quasi metronomico il ticchettio appunto di un tempo non solo saturnino dissolutore delle vicende umane ma anche di un tempo che struttura il ritmo.

I sonetti di Rossi Precerutti prevedono l'uso della rima canonica quella “incrociata”. E questo è l'uso consolidato dalla tradizione. E c'è un punto nella poesia Dentro un fuoco dove il poeta pur mantenendosi all'interno del codice (quello delle rime incatenate) arriva a tentare una fortissima cesura spezzando in due sillabe (“ce-spi”) il finale della seconda quartina e l'attacco della terzina seguente. L'enjambement clamoroso permette però il controllo del sistema di rime nelle quartine: ABBA. Quasi sempre in Rossi Precerutti il sistema delle rime si distende fitto ad attraversare le strofe (anche dall'interno naturalmente) dando così al lettore la sensazione di poggiare su di un terreno armonico o su di un arcaico pre-verbale. Quel girotondo di suoni che solitamente si designa con il termine “musicalità”. Ma se la musica sovente è la facile riserva cui ricorrono i retori di scarsa inventiva qui occorre riconoscere piuttosto l'urgenza battente di un pensare-cantare in versi (non misurabile però né dal pensiero né dalla metrica) che ha trovato la sua fonte di germinazione proprio nel ritmo.

C'è dell'altro. C'è un pensiero che sta per farsi canto o meglio un canto che ha incontrato il pensiero rinunciando così a ogni suggestione di tipo lirico o effusivo. è un pensiero che tende ai modi dell'”impersonale” pensiero tanto puro da essere garantito (e minacciato insieme) solo da una piena luce una luce di dissoluzione. Quell'”infuriato splendore abbacina” si fa incendio “fiamma pura” e nello stesso tempo indica la via quella via che pure abbagliante nonostante tutto mantiene un suo “rigore delle luci”. Come un ordine morale.

Qui gli oggetti i sostantivi che questi designano tendono a sfuggire a ogni presa sia questa letterale o simbolica o analogica. Si potrebbe parlare di questa raccolta come di una grande allegoria complessiva strutturata in modo da non consentire mai al singolo dato alla “cosa” all'oscuro peso della materia di prendere il sopravvento sul potere araldico della “figura”. Ma anche la figura è a suo modo imprendibile sempre circonfusa da aloni da vapori: “L'alone / come tormento e meta”. Questo vapore o alone o gas (“globi di gas contati / nello sguardo”) è ciò che viaggia imprendibile con l'aria l'aura vorrei dire. L'elemento stregato: “ferita o incanto”. Ma ciò che non consente né l'eccesso di prossimità e nemmeno l'allontanamento finirà per indicare una direzione simbolica molto precisa nell'immaginario poetico preceruttiano: una trasparenza ulteriore una verticalità intesa come la stessa meta del volo. è la via allegorica della trasfigurazione. Non per caso questo termine Trasfigurazione compare con la maiuscola nel titolo d'attacco nella prima poesia della raccolta. Apre la scena. Rimarrà quest'ansia di trasfigurazione come lo sfondo contemplativo ideale per la lettura di tutto il libro.

Inoltre nelle Rovine del cielo tanti segnali sembrano far convergere l'attenzione su un punto l'”alto” che diventa situazione materiale e immateriale assieme. Il ricorrere frequentissimo quasi ossessionante di questo topos è accertabile anche da una prima e veloce lettura. L'alto è in primo luogo la dimensione naturale di un asse di verticalità (che peraltro non esclude l'abisso). è spinta al volo alla liberazione dal peso della materia certo. Ma ancor più sottilmente l'alto diventa anche la prospettiva privilegiata dello sguardo quello poetico quello reclamato dal poeta. Occorre dunque un distacco che permetta di governare anche spazialmente dall'alto appunto tutto il magma delle pulsioni: l'oscuro il “troppo umano”. E saranno proprio queste ultime le pulsioni a entrare in gioco innervando ancora una volta il grande tema della sfida della battaglia della lotta con se stessi attraverso la figura insistita dei “passi”: passi “di lotta” passi “di minaccia”. E ancora c'è un “passo dei morti”. La presenza di forze ctonie. Ben avvertibile ad esempio nella poesia Persefone così fittamente tramata da una rete di vocaboli scuri: “oscura” “agonia” “buio” “annega” “foschia” “cenere” “freddo” “vuoto”.

Il passo che si avvicina in realtà è il suo quello che più sembra allontanare il poeta da se stesso e che invece gli appartiene gli dà la parola. Come “parola di passo” parola poetica che chiama lo splendore del mondo. Se lo si chiama con la parla giusta con il nome giusto allora viene.


Dario Capello

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