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L’opera, a prima vista, potrebbe sembrare una favola, con la narratrice che, assunto il nome di Rossella, penetra in uno specchio, una specie di porta del tempo, per ritrovarsi negli anni dell’immediato dopoguerra, spettatrice invisibile a tutti tranne a lei bambina. L’escamotage riesce perfettamente e così possiamo vedere, in un raffronto ideale, la bimba dell’epoca e la stessa, più che maggiorenne, dei giorni nostri, con inevitabili positivi effetti sull’intera narrazione. L’autore ci parla per bocca di Rossella adulta di un mondo da troppo tempo dimenticato, di un paese uscito distrutto dalla guerra, della fame che attanaglia la maggior parte dei suoi abitanti. Ho vissuto quell’epoca e so che Graziella Cappelli non inventa niente, perché purtroppo la povertà era diffusa e anche la miseria, compagna fedele e non certo desiderata di Rossella e famiglia, non era una condizione sociale rara. Una madre sfiduciata, anche un po’ spigolosa, un padre che si danna per trovare occasioni di lavoro rare e che spesso gli sfuggono, un fratello in collegio e l’altro più grande in sanatorio a curarsi inutilmente della tisi che l’ha colpito sono il ritratto di una famiglia che cerca di sopravvivere con onestà e con dignità, sono il palcoscenico di quella giovinezza in cui tanto si è patito da lasciare i segni anche in anni più maturi, quando si ricercano i perché di un passato che sembra una condanna del presente. Eppure, di fronte a tanto dolore, non mancano pagine di resurrezione, come quando con l’acclarata capacità poetica dell’autore ci sono intense descrizioni del paesaggio toscano, dove si riesce a cogliere il meglio della natura. Mi è piaciuto questo racconto lungo, mi sono emozionato leggendo, ho rivissuto un lontano passato, e di ciò non posso che ringraziare Graziella Cappelli per averlo riesumato con mano leggera, ma anche con intensa partecipazione.
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