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Certe espressioni di tipo narrativo a volte non sono disgiunte da una interna ritmica, da un gusto del tutto musicale che, spezzate in versi, assumono la forma della poesia. Nei versi di Santhers si coglie una concretezza di situazioni, di immagini sempre aderenti al dato di realtà, se non cronachistico, che li rende rari se non unici nel panorama poetico italiano. La violenza, l’irruenza che a tratti deflagra nei versi di Santhers, ci fanno ricordare alcune pagine in prosa di un Burroughs, non tanto nello stile, quanto nell’apporto simbolico dato al testo. Se vogliamo affrontare il complesso discorso “Santhers” dobbiamo parlare di sentimenti primordiali, grezze emozioni, dolce e a volte ruvida musica e – se vogliamo, senza parlare di metro – ritmo interno al suo nucleo cuore-narrazione-poesia. Verso che si fa “cosa”, da vivere, rivivere, “toccare” con mano. Vendetta morale e talvolta invettiva contro la società ignorante, anche in questi casi Santhers non rinuncia alla sua musicale e suadente cantilena che – nell’impeto della denuncia – lascia spazio a un senso di immensa pietà per le cose umane. I suoi racconti-poesia, abbozzi e bassorilievi, terrecotte modellate con colpi decisi di lama, sono presi dalla vita reale, dalla cronaca, sono spesso fatti realmente accaduti nel suo microcosmo molisano, espressione di un più vasto e universale consorzio di esseri umani in perenne lotta, reciproca vendetta, delitti a cielo aperto che nemmeno Dio punisce, troppo stanco di vedere certe brutture. Santhers ha rinunciato a Dio, ma crede. Come un cantastorie, Santhers scandisce i fatti della sua terra, ne mette a nudo la cruda brutalità, e in questo suo “gioco” (un gioco molto serio, e se vogliamo pericoloso) pare un bambino che si diverta a tracciare oscenità sui muri. Diversamente dal bambino, che agisce del tutto inconsapevolmente, c’è in Santhers una potenza di denuncia sociale, che rende le sue “oscenità” vera poesia civile, impegno etico, prima ancora che politico. Andrea Di Cesare
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