Ci sono autori la cui fortuna presso il grande pubblico è indipendente dalle fluttuazioni del giudizio dei critici. Bollato da Thibaudet, nel 1935, come "grossolanamente epico", condannato da Lukács, nel 1940, in quanto appartenente alla "grigia mediocrità del naturalismo", confinato da Barthes, nel 1952, tra gli autori "senza stile", Zola ha attraversato il periodo più buio della sua esistenza postuma senza che i suoi capolavori perdessero lettori. Si poteva dubitare dell'eccellenza estetica della sua opera, ma la si frequentava egualmente: per familiarizzarsi con la società del Secondo Impero, per immergersi nel mondo sfavillante dei teatri dell'età di Offenbach o nei tenebrosi cunicoli delle miniere di Montsou. Nel frattempo, il lavoro di una nutrita schiera di specialisti cominciava a disegnare di lui un'immagine del tutto inedita. Era quella di uno scrittore la cui narrazione della modernità si avvaleva, inaspettatamente, di remoti archetipi mitici; di un rinnovatore radicale nel trattamento dello spazio romanzesco; di un narratore capace di far propri i metodi di lavoro di scienze d'avanguardia come l'etnologia e la sociologia e di annettere al proprio immaginario quel mondo delle macchine con il quale, tra Otto e Novecento, era inevitabile confrontarsi. Lo Zola "plurale" che oggi leggiamo, nei cui romanzi le spinte involontarie dell'eredità genetica sembrano prefigurare, nota Pellini, le pulsioni freudiane, è il frutto di questa ridefinizione critica, che ne ha messo in luce tutta la tormentata complessità. L'ampia scelta dei Rougon-Macquart dei "Meridiani", di cui è uscito da poco il secondo volume, si presenta come lo strumento ottimale per il lettore italiano che voglia rendersi conto di tale processo. Nelle introduzioni del curatore, come nelle ricchissime note e nelle notices impeccabili che accompagnano i testi e ne illustrano la genesi, confluiscono i risultati di una tradizione critica illuminante: lo scrittore "senza stile" si rivela portatore di una pluralità di stili in cui si incontrano lo sguardo di Manet e l'esempio di Flaubert, l'oralità popolare colta sul vivo e la cultura positivista, le suggestioni di Schopenhauer e il denegato modello del romanticismo hugoliano. Pubblicati tra il 1882 e il 1884 da uno Zola giunto pressappoco a metà dei Rougon-Macquart, i tre romanzi inclusi in questo volume non sono tra i più celebri del grande ciclo romanzesco. Ma con la diversità estrema dei registri e dei temi affrontati smentiscono energicamente il luogo comune della grigia e piatta monotonia naturalistica. Il primo, Pot-Bouille (qui tradotto La solita minestra e in passato, forse più efficacemente, Quel che bolle in pentola), racconta, con la crudeltà delle acqueforti di Daumier, i poco edificanti retroscena di un palazzo della Parigi borghese. La contrapposizione tra le lussuose scale in finto marmo, dove gli inquilini recitano la commedia dell'agiatezza, cercando di nascondere la loro costante preoccupazione per il denaro, e il buio cortile-pozzo in cui le domestiche gettano le immondizie sghignazzando sui mal custoditi segreti delle padrone è il centro di un racconto corale pervaso di una sorta di violenta ironia vendicatrice. Da un'intenzione quasi opposta nasce il romanzo successivo, Au Bonheur des Dames: deciso a celebrare, ottimisticamente, l'entusiasmo fattivo di un grande rinnovatore del commercio parigino, Zola racconta la spettacolare crescita di uno dei primi grandi magazzini, macchina gigantesca e vera cattedrale dei tempi nuovi. Al poema del commercio si intreccia, per la gioia dei critici del tempo, una fiaba d'amore: il fondatore di Au Bonheur des Dames, dopo esser stato un irresistibile don Giovanni, sposerà la commessa Denise, adorabile Cenerentola dall'infaticabile altruismo. Ed è ancora una celebrazione della dedizione femminile, della vocazione all'accudimento innalzata a modello supremo, che troviamo nel terzo romanzo, La gioia di vivere. In un villaggio sperduto in riva all'oceano, la protagonista Pauline contrappone la propria energia caritatevole all'egoismo del fidanzato, Lazare, che accumula fallimenti in ogni campo, giustificando la propria morbosa disperazione con la filosofia pessimista di Schopenhauer. Ben più schopenhaueriana di lui, in realtà, è Pauline, che incarna la compassione teorizzata dal filosofo tedesco; e il contrappunto psicologico tra i personaggi, tra i quali si insinua la languida e seducente Louise, mostra ancora una volta quanto sia da accantonare il diffuso pregiudizio che fa di Zola un autore negato alle sottigliezze psicologiche, a suo agio soltanto sul terreno della descrizione, dell'analisi sociale e della dimostrazione scientifica.
Mariolina Bertini
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