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Un flusso di coscienza dove Joyce racconta la formazione della personalità del giovane protagonista Stephen Dedalus, dalla base convenzionale religiosa alla ricerca di un identità intellettuale indipendente. La trasformazione del giovane Dedalus è un percorso molto interessante e lucido. Molto bello.
Si avverte, nell'evoluzione di S.D., una netta impronta di Kierkegaard: dopo la larvale neutralità dell'infanzia, trascorsa all'ombra di leggi adulte accettate acriticamente, egli avverte deflagrare nel sangue il rombo della lussuria, che lo spinge alla ricerca del piacere (fase estetica), per poi entrare in un periodo di contrizione che lo porta alla soglia della decisione di farsi chierico (fase etica), alla quale abdica in nome della risoluzione di vivere da artista (non si capisce però per dedicarsi a quale 'arte' di preciso), accettando il mondo ma senza abbandonarsi ad esso; tuttavia questo terzo stadio, in cui il protagonista trova una serena sintesi fra sensualità e istanza morale, appare raggiunto in modo un pò troppo facile e brusco: troppo sbrigativamente guarisce dal pungolo della propria lussuria, così come di punto in bianco smette di preoccuparsi della sorte dell'anima, per cui manca di coerenza e credibilità: sembra solo funzionale all'esigenza dell'autore di discutere due posizioni verso l'esistenza che gli riescono, per motivi complementari, entrambi parziali. Lo stile ha una sua schietta originalità quando esplora le libere associazioni, ma risulta enfatico quando rimarca l'odore nauseabondo con cui il peccato avvince la coscienza; inutili e pesanti poi tutti i riferimenti alla storia irlandese: retaggio di un realismo impraticabile ora che la scrittura si propone di scrutare a fondo nella soggettività come mai fino ad ora. Forse il meglio sta nel discorso del predicatore sull'inferno, ma l'uomo del XX secolo non ha più lo spessore intellettuale per confrontarsi coi problemi ultimi: vive al di qua di essi, in una miseria che non gli permette né la fede né il rifiuto della stessa.
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