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Dal picco di un trono dove ogni minimo accenno è ordine senza discussioni al secco alloro di una gloria presto tramontata. Dal verbo sovrano a ceneri di silenzio, perché "il leone doma il leopardo, ma non può cancellarne le macchie". Bolingbroke il disobbediente al bando di Riccardo torna, raduna i suoi e pian piano scredita e solleva il sovrano, prendendone la corona: "Ah Riccardo, il tuo sole scende lacrimando a un occidente scialbo". E a fronte di quest'azione una lenta china nel cuore di un re, la graduale presa di coscienza della sua solitudine, di certezze calpestate, di un manto inattaccabile divenuto straccio senza valore. Convinto che "la verità ha il respiro calmo" dovrà via via prendere atto che "le cose dolci al gusto si fanno acide alla digestione", vedendosi alla fine come "un radioso Fetonte incapace di guidare un brocco testardo". Splendido scettro nelle mani tramutato in un povero stecco di palude, smarrito declino e canto di prigionia, nel destino di un debole che sente e tocca la sua atroce caduta, ma lavorandola con pensieri sublimi: "Facciamo della polvere foglio e con la pioggia degli occhi scriviamo dolore sul seno della terra. Un re schiavo del dolore deve al dolore un'obbedienza da re. Perché non sono grande come il mio dolore? O meno grande del mio nome e poter dimenticare chi ero o non ricordare quello che mi tocca esser ora?". Vorrebbe reagire, rintoccano nel suo animo i torti subiti, ma saprà cingerli di rassegnata grandezza dicendo al cugino: "Ora questa corona è come un pozzo profondo con due secchi che si empiono a turno: quello vuoto ballonzola in aria, l'altro, invisibile, giù, pieno di acqua. Quello di giù pieno di pianto sono io che mi bevo le mie lacrime, mentre tu danzi nel cielo". Ed è non meno indimenticabile nel finale l'angoscia di Bolingbroke per la fine di Riccardo, "per questo sangue che ha dovuto abbeverare il germoglio della mia gloria". Un sole tirato giù dalle funi del tradimento. A confermare la tragedia del potere.
Tema attuale, dinamiche di potere e relazionali facili da rivedere nei nostri tempi
Non è che voglia scoprire l'acqua calda: che Shakespeare è un grande non sarò certo il primo a dirlo. Però alla fine si parla sempre delle stesse opere, mentre la cosa impressionante di William è che anche le opere meno famose sono comunque sbalorditive. Lasciamo perdere la storia medievale: vediamolo come una storia e basta. Qui c'è un uomo debole, che fa il prepotente per paura che si scopra la sua debolezza e incapacità. Intorno ha un branco di bastardi assetati di sangue, pronti a rivoltarglisi contro per prendere quella corona che porta sulla testa. I suoi parenti sono quelli di cui Riccardo può fidarsi di meno, perché essendo di sangue reale ritengono di aver diritto alla corona anche loro. E il mestiere del capo è tutt'altro che semplice. E' una storia antica, quella del potere e di ciò che bisogna fare per manentenerlo o per prenderlo; ma in mano a Shakespeare diventa sempre qualcosa d'altro e qualcosa di più. Ne esce fuori come sempre un personaggio memorabile, questo Riccardo secondo nato per fare il re ma incapace di farlo.
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