“Se c’è qualcosa di utile per caratterizzare le attuali relazioni tra l’arte e la fotografia, questo qualcosa è la tensione, non ancora scaricata, che si è stabilita tra esse attraverso la fotografia delle opere d’arte”. Sono parole del 1931, dalla Piccola storia della fotografia di Walter Benjamin, ma non se ne potrebbero trovare di più attuali. La tensione non si è ancora scaricata, e anzi si è fatta più acuta con l’avvento dei mezzi digitali, come testimonia lo stimolante catalogo di una recente esposizione fiorentina dedicata all’immagine della scultura di Michelangelo nella fotografia e nella pittura dall’Ottocento a oggi (Firenze, Galleria dell’Accademia, 18 febbraio-18 maggio 2014).
Il volume, dal titolo Ri-conoscere Michelangelo, focalizza in realtà un caso-limite nella fotografia di opere d’arte, sia per l’oggetto (la scultura) che per l’artista indagato; ma proprio perciò tanto più significativo in merito alle tensioni rilevate dal sensibilissimo sismografo benjaminiano.
Da un lato, la “connaturalità” della scultura alla fotografia, derivante dall’immobilità e dalla monocromia delle statue, è contestata dall’interno dalla molteplicità dei punti di vista con cui queste si offrono all’obiettivo (per non parlare della libertà creativa del fotografo in materia di illuminazione e formati): eterna dialettica tra fotografia come documento e fotografia come arte. Dall’altro lato, un artista che persino il più inflessibile codificatore della visione monofocale (ovvero dell’unico punto di vista corretto dal quale riprendere le sculture) è costretto a trattare come un “caso eccezionale” (Heinrich Wölfflin in Fotografare la scultura, 1896, pubblicato in Italia da Tre Lune nel 2008). C’è da aspettarsi che le tensioni siano particolarmente accentuate, come in effetti puntualmente si verifica.
Un’esperienza comune ai frequentatori di musei: lo sguardo che si posa, tra il malinconico e il distratto, sulla fotografia collocata in luogo di un’opera in restauro o imprestata, in quest’epoca di capolavori in perpetua tournée. Così non era nei primi decenni dell’invenzione fotografica, come informano i resoconti della mostra del centenario michelangiolesco del 1875 ripresi in quasi tutti i saggi del volume. In quell’occasione, nelle sale dell’Accademia di Belle Arti di Firenze, la statua di David, unica opera d’arte originale, era attorniata da copie in gesso di altri capolavori, e soprattutto da fotografie offerte da donatori di tutta Europa, citati uno a uno (il municipio di Bologna e il rettore dell’Opera del Duomo di Siena, il governo francese e quello di Sassonia-Weimar, ecc.) in un’apposita tabula gratulatoria: segno di un prestigio del medium, di un’aura che appare oggi decisamente appannata.
A compensazione di questa perdita, il volume dedica ampia attenzione (soprattutto nell’elegante saggio di Tiziana Serena, che fa eco al recente libro dell’infaticabile Georges Didi-Huberman sul Musée imaginaire di Malraux) alle virtualità di significazione possedute dal montaggio di fotografie di opere d’arte in forme quali l’album fotografico e l’archivio: non solo dispositivi della memoria personale e collettiva, ma anche catalizzatori, attraverso la comparazione morfologica, di accostamenti capaci di scompaginare cronologie e geografie canonizzate. Minor attenzione all’immagine fotografica come epifania dell’unicità del genio, pertanto (tutti ricorderanno l’accanimento del giovane Roberto Longhi scommettitore nel gioco delle “finestrelle”), a vantaggio di un’indagine che non disprezza l’anonimato delle forme.
Nel trascorrere dalla fortuna della scultura di Michelangelo nella pittura a quella nella fotografia, in effetti, il volume consente di tracciare un diagramma che va dal mito “pittorico” dell’artista (al culmine nell’auto-identificativo Michel-Ange dans son atelier di Delacroix, 1849-53) a quello “fotografico” dell’opera, indagata come traccia del genio assente dagli occhi inquieti di Antonia Mulas, Helmut Newton, Gabriele Basilico. Ma anche oltre, nella dissoluzione dello stesso mito dell’opera disperso nelle immagini degli smartphone e dei tablet (e dei “tormo subito!” dei musei).
Restano infine gli spettatori, dapprima inclusi nell’immagine, accanto a Pietà Rondanini negli scatti di Paolo Monti (1956 e 1961), o a una copia di David al Museo Pushkin di Mosca in quelli di Lise Sarfati (1993); quindi soggetto esclusivo della fotografia in Audience 1 di Thomas Struth (2004), ritratto di gruppo di turisti a naso in su in un non meglio identificato museo fiorentino, che immaginiamo intenti a contemplare David (l’originale). Un omaggio, tutto sommato, alla capacità della fotografia di generare miti nella coscienza collettiva, proprio mentre essa prosegue instancabilmente nella sua opera di erosione dell’aura; un altro emblematico sismogramma di tensioni non ancora scaricate.
Marco Maggi