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Con la vecchia realtà muore anche il romanzo. Quindi il libro è un monologo con pochissimi fatti e quasi senza nomi propri (tranne quelli di poeti-modello come Brecht e Beckett, non casuali), un prosimetrum e un collage (contiene anche frammenti della stampa e illustrazioni, funzionali al discorso e al delirio del narratore). È la situazione infernale e confusa, composita e non-finita, della Divina Mimesis di Pasolini. Cioè: quando le strutture sociali si allentano, nella realtà o nella visione profetica, le strutture espressive devono cambiare. Il rischio, altrimenti, non è tanto la non conformità al Nuovo e al Brutto, ma l’autoparodia dello scrittore e della sua stessa scrittura (è Pasolini l’intellettuale di p. 81? «Solo uno, un poco buffo e un poco tonto, come lo consideravano, continuava a ripetere maniacalmente che lui ce lo vedeva il Fungo all’orizzonte e che la cultura colpevole faceva finta di niente: solo che dimostrava di esserlo per davvero tonto mostrandosi indifferente alla rimozione delle cause prime, non ha mai capito che il Militare è l’anima del Capitale e voleva opporsi alla macchina infernale recuperando l’Uomo…»). Come dire: la «Nuova Preistoria» o l’Africa-alternativa invocate da Pasolini possono apparire dopo un crollo che escludendo l’umanità esclude anche il Desiderio e la Speranza; non grazie ad una rivoluzione culturale dell’Uomo recuperato per via di engagement. Questo romanzo si basa sulla dispersione violenta di una tradizione umana; poeticamente, si apre e si chiude con la dispersione dell’acqua — «l’acqua che vedo scorrere è limpida» (p. 21) — e della vita — «energia e calore si disperdono lentamente. Mi chiedo dove finiscono» (p. 145). Infatti «il futuro non comincia» (come Petrolio di Pasolini: nuova somiglianza) e il padre (quello della Trinità, nel contesto, ma con una minuscola che lo lascia identificare anche con ogni padre umano) «deve cancellarsi» (p. 133). «Padre» è il nome generico di molte realtà temute: stato, energia, capitale.
ciò che chiami civiltà è rapina / industriale o contadina / dare e prendere significa / dà chi non prende. Questi sono gli ultimi versi dell'ultima lettera-poesia con cui il narratore di "Il re del magazzino" intervalla il diario dei suoi ultimi trentadue giorni di esistenza - suoi e di tutti gli uomini della terra che fin qui, mentre fingevano di attendere all'impegno della vita, in realtà erano occupati a saccheggiare, inquinare, inaridire ogni possibile fonte di sopravvivenza, riducendo alla fine il mondo a un osso spolpato, buono nemmeno per la fame delle formiche e inattaccabile anche dai denti dei topi. In effetti gli uomini è da tempo che vedevano approssimarsi la catastrofe, e ad essa avevano opposto i rimedi dell'ecologia e il rinato amore per la natura. Ma non è con la nostalgia che si può avere ragione del Cancro del Capitale, che tutto infetta e spegne. Rimane solo un magazzino e un uomo, che anche lui tra trentadue giorni morirà, a governare immondizie e rifiuti. Questo uomo ha un solo appiglio cui aggrappare la sua (provvisoria) sopravvivenza: scrivere e, attraverso la scrittura, ristabilire un minimo di comunicazione. Scrivere e leggere alcune poesie-lettere scritte l'anno prima e mai spedite in cui, rivolgendosi ai due figli, mentre li avverte di tenersi pronti al sacrificio, li ammonisce che i misfatti che insanguinarono la cronaca dell'anno 1976, dal delitto del Circeo al genocidio di Tall El Zaatar, sono solo l'inizio di un lavacro universale: il tributo dovuto a un dopo diverso. Le cose però sono più complesse, perchè la struttura de "Il re del magazzino" non è quella di un tradizionale romanzo: Porta, con una certa audacia, ha costruito un moderno viaggio nella propria storia di uomo, di poeta e di intellettuale, narrato con alternanza di prosa e poesia, dove le poesie sono in forma di Lettere e le prose ci conducono alle tappe di un personale e insieme ecumenico rito funebre, da cui nascerà la vita nuova: "Farò tutto nuovo" sono le parole finali del re del magazzino in premessa al testo.
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