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Il re è a tavola. Ricordi dalla cucina di corte di re Luigi II di Baviera
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1990
1 gennaio 1990
124 p.
9788877660756

Voce della critica


recensione di Vallora, M., L'Indice 1991, n. 4

"Ricordi 'dalla' cucina di corte di Re Luigi II di Baviera", sottolinea con una punta di fatua, sprezzante superiorità, re Konstantin, principe successore di Baviera, "democratico" prefatore di lusso di questo volume di memorie, che garantisce la "straordinaria semplicità ed autenticità dei racconti" di tanto dolcissimo, a suo modo anche letteratissimo e soprattutto devoto servitore dello sfortunato suo predecessore, il così definito "Re delle favole". "Dalla cucina": e in effetti è quasi un gioco ottico quello che ci si fa incontro: raccontare, immaginare, guardare un re a partire dalla meticolosa, religiosa preparazione di un 'pƒté de foie gras'. Ma attenzione, non in senso dispregiativo, tutt'altro. È luogo comune fin troppo facile denigrare il domestico che "giudica" il suo illustre padrone attraverso l'ottica abbassata del buco della serratura: un pregiudizio, come insegna questo libro. Pur senza disturbare la mitologia della storia sociale, della cultura materiale, è probabile che molto più si capisca del re Ludwig di Baviera leggendo questo memoriale ritagliato, settoriale, dall'ottica bassa ma non vile, piuttosto che frequentare un pretenzioso testo frigido, astratto, della storiografia ufficiale.
Ma ottica bassa, che cosa significa? Intanto il memoriale incomincia quasi come un romanzo picaresco. Il rigido padre, umile guantaio, che congeda il ragazzino quattordicenne, abbandonandolo nella grande cucina della Residenza di Monaco. E come unico viatico, questa frese "virile" di congedo, poco rassicurante: Figlio mio, ti devi adattare". La cita non è facile, in effetti, all'inizio: assunto come giovane assistente di focolare, garzone che per il momento si occupa principalmente della "manutenzione degli attrezzi " - e che un giorno, se si farà onore e supererà difficoltosi, autentici "esami" di culinaria, potrà entrare nella nobile schiatta dei cuochi di corte -, il quasi-bambino Theodor deve innanzitutto uniformarsi agli stravaganti orari del monarca, che com'è noto ha decadentemente rovesciato il giorno con la notte, "svegliandosi fra le sei e le sette" di sera, per vivere le sue "giornate notturne", come felicemente Hierneis le definisce. "Ed ai miei quattordici anni ciò fa particolarmente male", commenta giudiziosamente ma arrendevole il vecchio servitore, che dall'alto dei suoi concilianti ottantacinque anni, ricorda quelle levate inclementi, e quel sempiterno rimanere svegli al lavoro, e quel timore di campanello improvviso, come per la Celeste di Proust, che lo costringevano a navigare, nei primi tempi, e bollire in una ipnotica, brumosa sonnolenza. Ma, spartano, "mi dissi che se gli altri ci riuscivano, anch'io avrei potuto benissimo farcela": tanto più che "non mi rimaneva nemmeno il tempo per riflettere alla stanchezza".
Il primo sguardo, fa inevitabilmente pensare all'ottica bambina, deformata della cucina di Fratta. "Tutto è da ammirare nella bella, grande cucina della Residenza" è la prima reazione stranita: e un'eco ancora di quell'infantile stupore si risente nel dovizioso elenco degli "sfarzosi servizi da tavola, le file sfavillanti di padelle ed utensili di rame, i giganteschi, immacolati focolari" intorno a cui s'industriano sei burberi, leggendari mastri-cucinieri. Al giovinetto viene riservato un angolo sperimentale di focolare; poi gli rovesciano addosso le dotte "lezioni di merceologia", l'iniziazione ai "segreti degli armadi" per poter distinguere il "riso Carolina" che cuoce con maggior indipendenza, oppure l'uva di Corinto da quella sultanina; infine la pioggia insidiosa degli scherzi, con la quieta consolazione che vi saranno nel futuro altri garzoni cui poter infliggere quella rassicurante, maturante liturgia di facezie. Così, subito, dopo un primo sguardo di ammirata curiosità, scende l'inflessibile sipario della dura regola del lavoro, "che non concede molto tempo al mio stupore".
Il re, sino a questo momento, non è che un fantasma lontano, inavvicinabile, riempito del rispettosi pettegolezzi di corte: la formicolante "corte" della cucina. Come nei romanzi della Compton-Burnett, ma con meno veleni, forse come in "Capriccio" di Strauss, nella meravigliosa resa di Luca Ronconi, "vediamo" il mondo attraverso il filtro di parole della legione di cuochi e domestici, avviluppati e come lievemente ubriacati dai fuochi di cucina, dal modesto lucore delle candele. Un'ottica strabica, ma vera. "Con il Re, personalmente, non ero ancora venuto a contatto. Naturalmente, nel mio inconscio, mi ero fatta un'immagine": faticoso tentativo di mettere insieme alcuni tasselli, "alcuni nessi", per spiegare quest'uomo non folle - Hierneis cercherà di non sposare mai questa soluzione estrema - ma "un tipo strambo, con delle lune che la gente normale, per la verità, non dovrebbe avere". Viene immediatamente a galla il nome di Wagner, prim'ancora di parlare delle pretese "inclinazioni sentimentali per la cugina" o dell'ingombrante presenza di giovani attori, che si fermano anche la notte, caricati di generosi doni e vistosi. Hierneis è attentissimo a non avallare alcuna illazione. E poi lo ammette: tutto il misterioso cerimoniale - evitare di imbattersi nel re, nello sventurato caso piegare repentinamente gli occhi a terra, fingere di non esistere, parlare solo se interpellati - gli appare come un normalissimo, doveroso comportamento al cospetto di un monarca. Poi apprenderà che solo il suo re vive come terrorizzato dall'ipotesi di essere guardato dal mondo, che, malato, non sopporta il minimo, più innocente sguardo indagatore. Persino il suo adorato domestico Meyer, che regola tutte le più delicate faccende di camera - in questo universo di strampalata operetta, anche le più riservate faccende di corte devono essere assolte da parrucchieri, stallieri, domestici prediletti -, anche Meyer è obbligato a dialogare con lui coperto da una rassicurante maschera nera. Un'inflessibilità oscura, medievale, barbara, che domina su tutto: gli "altri" non devono esistere, per Ludwig: e la sua fiaba si spezza soltanto quando sopraggiungono i dignitari, con il "plico" che impone la sua detronizzazione.
Ma non esiste spazio di giudizio, in questa dedizione assoluta del garzone di cucina, che si accontenta di "potersi muovere nel suo ambito: questa era la felicità!". Un miracoloso talismano, un'aura benedetta, uno stato di grazia, che ripaga di ogni sacrificio. In vero, non che Hierneis non sappia che "da noi in cucina però l'atmosfera non è per niente da favola": ma il carisma del re-taumaturgo consola di ogni ferita. Emblematica la scena in cui, nelle misere lenzuola di un sonno risicatissimo, il garzone si difende con un povero ombrello dalle gocce d'umido, che scendono inesorabili dal soffitto. Sopra di lui, dopo aver fatto costruire un'immane lago artificiale, solo e sinistro re Ludwig scivola in gondola, dialogando col cigno di 'Lohengrin'. "Potei osservare di nascosto come il Re si faceva trasportare sul lago in una conchiglia dorata. Pareva un fantasma". È, per noi, come visitare le viscere, le "trippe" dell'estetismo. Ma non c'è mai protesta, miserabilismo, rivalsa: se mai complice compassione nel dolore della vita, "era per noi tranquillizzante notare come anche il Re dovesse combattere contro tutte le miserie terrene". "E così, in mezzo alle sue cose il Re era un uomo solo, infelice!"
Certo, tutto filtrato attraverso gli occhi di un domestico: il re ha i denti guasti, ha paura del dentista, può mangiare solo cibi` "teneri e spumosi". Ma è quella sua solitudine brulicante di fantasmi che getta un'ombra sinistra. Terrorizzato, occultato nel buio di una nicchia, senza respirare, il servo sorpreso per caso in una stanza dal felpato sopraggiungere del re, assiste trafelato e non visto alle manifestazioni inquietanti di un uomo devastato, che abbraccia la statua equestre di Luigi XIV e conversa disinvoltamente con il marmo. Così, solo il magico tavolino "Tischlein Deck Dich", che, preparato per quattro, sale già imbandito dalle viscere delle cucine, direttamente nelle stanze del re, solo il tavolo sa che Ludwig è solo, comunque, e che intrattiene conversazioni immaginarie con madame Dubarry, madame Maintenon e la Pompadour: travestito spesso da re di Francia, il re delle favole si crede a Versailles. No, non era folle, si affretta a convincersi Hierneis, "noi consideravamo queste cose come una sorta di raffinatezza", ma "forse avvertivo che c'era come un soffio che proveniva da un mondo diverso, incomprensibile".
Indimenticabile la scena in cui il domestico, ricolmo di tartine destinate al solitario palco del re - che come d'abitudine si fa rappresentare qualcosa a teatro per se solo - attraversa stanze e stanze illuminate nella notte, penetrando infine nella camera da musica: e vi scopre, miracoloso, l'incanto muto di un carillon. Le mani ingombre di vassoi, vorrebbe farlo suonare, ma teme come sempre l'arrivo subdolo dell'imprevedibile monarca. Rimarrà inevaso, questo desiderio, sino al giorno in cui, il garzone divenuto benestante, potrà acquistarsi un carillon, meno elegante, è ovvio (non "Marta" di Flotow o Daniel Auber, soltanto "Il carnevale di Venezia"), ma finalmente sonoro. Gli dà respiro, incauto, mentre Ludwig sta salendo alla sua torre, "che fungeva da megafono". Terrorizzati si precipitano i servi a tacitare quel suono trasgressivo. Ma no, curioso il re s'informa, vuol sapere "come si chiamasse quel garzone di cucina così amante della musica": ed è l'unico momento, davvero, in cui Ludwig sembra accorgersi dell'esistenza di Theodor. Da collezionista a collezionista: stesso vizio.
Altrimenti il mondo deve scomparire intorno a lui, per non rischiare "una prosaica interruzione della sua vita sognante", come sottilmente chiosa il suo segreto testimone. Il cibo, per lui, non esiste: anche se i "cigni maestosi", i divini pavoni vengono preparati come vere e proprie sfarzose "prime" teatrali, "sembrava che la cucina per il Re non fosse altro che una necessaria ma fastidiosa interruzione delle sue occupazioni spirituali". Per questo non arrivano mai doni, riconoscimenti, gratitudine alla "cucina che lo venerava": soltanto rimbrotti, o impazienze, quando i cibi tardavano.
E sono bellissime, anche - alla Sybeberg - le "stampine" dei vari spostamenti notturni, da un castello all'altro: con le slitte, o i treni speciali, o con le carrozze tirate da cavalli tanto sudati che i vapori oscurano la notte illuminata da mille fiaccole, e i cibi sempre appresso, preparatissimi e sofisticati, "coperti di cupole bollenti, impacchettati negli appositi canestri e avvolti di panni caldi". Meraviglioso 'coup de théƒtre', il sontuoso, inutile menu, che Ludwig nemmeno assaggiò, la sera del suicidio nel lago: inutilità di un servo, che hegelianamente sopravvive al suo padrone, e la sera del funerale potrà tornare a dar voce al carillon, lasciandosi "catturare dalla sua melanconia".
Così, anche la Storia può passare attraverso una posata d'oro: quelle posate che a un tratto verranno dai servi impugnate come armi, per difendere il re-prigioniero e che infine - unico segno di rivolta - provocheranno in lui "un'esclamazione di stupore". Il re che finge di non accorgersi degli spioncini, delle maniglie tolte alle sue porte, dei vestiti che gli hanno portato via, di fronte, a quei "coltelli da frutta spuntati" non sa reprimere un gesto di stizza. Quelle stesse posate che dopo la sua morte passeranno a Otto, il fratello completamente folle: ma che, impugnandole, ritroverà un barlume di coscienza per proclamare solenne: "Adesso però, dovete chiamarmi Maestà".

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