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Il razzismo e le sue storie
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1992
1 dicembre 1992
9788871044958

Voce della critica

IMBRUGLIA, GIROLAMO (A CURA DI), Il razzismo e le sue storie, Edizioni Scientifiche Italiane, 1992
ANQUETIL-DUPERRON, ABRAHAM-HYACINTHE, Considérations philosophiques historiques et géographiques.., Scuola Normale Superiore di Pisa, 1993
recensione di Tortarolo, E., L'Indice 1993, n.11

"Siamo tutti figli di Adamo ed Eva". Malgrado Darwin, Big Bang e il brodo primordiale, si dice così nella vita di tutti i giorni per esprimere la convinzione profonda che il genere umano è unito da vincoli di fraternità primordiale, insomma che siamo tutti essenzialmente uguali porche abbiamo un'origine comune. Sappiamo per dolorosa esperienza di tutti noi quanto questo riferimento alla "Genesi" non impedisca di per sé l'elaborazione, la diffusione e la fortuna di teorie razziste, che questa unità essenziale frantumano in una gerarchia di gruppi alcuni più "umani" degli altri. La raccolta di saggi curata da Imbruglia (ma deturpata da molti, fastidiosi refusi) e il testo settecentesco di Anquetil-Duperron, che Abbattista con affetto e rigore ha riscoperto e edito a partire dal manoscritto francese, affrontano un nodo di problemi analogo: che cosa sono le razze? Quali i loro fondamenti scientifici? Quali i loro nessi con la storia dell'espansione europea nel mondo? I due libri si possono leggere in parallelo: la riflessione sulle razze e sul razzismo ha una sua vicenda che una lettura incrociata permette di percepire in tutta la sua ampiezza.
Anquetil-Duperron, affascinante figura di erudito orientalista, a disagio nella Parigi dei lumi dopo un lungo e movimentato soggiorno in India, si assegn• in quest'opera il compito di confutare la tesi dell'inferiorità razziale delle popolazioni del Nord in America, Europa e Asia. Esquimesi, groenlandesi, lapponi, samoiedi, iakuti, tungusi, ostiachi, calmucchi popolano le pagine di questo frammento di una storia universale che il suo autore non riuscì a terminare. L'incompiutezza dell'opera paradossalmente contribuisce al suo interesse: la scrittura aspra, non levigata dalla rielaborazione, porta i segni della raccolta incessante di materiale, mostra i tormenti della ricerca di un senso nella molteplicità dei fenomeni umani e naturali. Affiora la ricerca di una ragione esplicativa che esiste ma è nascosta, obiettivo di un inseguimento senza fine: lo scienziato scrive sotto il pungolo del dubbio critico, del confronto con le fonti spesso incerte e contrastanti, è esposto alla forza centrifuga degli interrogativi più diversi. Ma la prospettiva di Anquetil-Duperron emerge chiaramente dalla massa di informazioni offerte al lettore. La volontà di dominio commerciale ha distorto il modo europeo di conoscere le altre civiltà e ha prodotto la tesi dell'inferiorità delle popolazioni che vivono diversamente da noi. Ogni popolo che non si adatta al commercio europeo, che non si lascia spogliare arbitrariamente n‚ intimidire dai torti, scrive Anquetil-Duperron, è marchiato come selvaggio e intrattabile, è considerato in qualche modo parte di una razza degenerata: "questo è il dizionario europeo" È vero il contrario per l'irrequieto francese, monogenista convinto: l'unità del genere umano è documentabile attraverso lo studio attento dei cosiddetti selvaggi, la loro vita è libera e difficile, è vicina alla natura e si snoda immersa in una continua irreflessa felicità, perché sottratta alla morsa dei bisogni artificiali tipici delle società sedentarie "civilizzate". Il clima è la chiave di cui Anquetil-Duperron si serve per spiegare le differenze esteriori, le "sfumature" che distinguono i gruppi umani all'interno della specie. E, da studioso malgrado tutto vicino alla cultura illuminista, Anquetil-Duperron vede il clima come un elemento almeno parzialmente modificabile dall'attività dell'uomo: le "sfumature" non sono iscritte una volta per tutte nel destino del genere umano, piuttosto vanno considerate frutto dell'adattamento. Accidentali sono quindi in linea di massima le differenziazioni tra i gruppi che tutta una tradizione antropologica aveva posto alla base di una gerarchia razziale, ma non nel senso che la cancellazione di queste specificità sia inevitabile o desiderabile nel progresso della storia umana. Il frammento di Anquetil-Duperron si chiude con un accenno a quei popoli che l'espansione commerciale e militare, soprattutto inglese, minaccia nella loro sopravvivenza fisica e che la scienza europea degrada a razze barbare e selvagge. L'elenco è impressionante perché mostra come problemi individuati da Anquetil-Duperron due secoli fa sono rimasti questioni aperte: se vecchi credenti russi e insediamenti autoctoni in Scozia e nei Vosgi sono stati infine assorbiti nelle società nazionali, curdi e drusi, zingari e lapponi hanno resistito tenacemente al disprezzo per le loro forme di cultura e alla pressione di chi li voleva assimilare, permanendo in quel rifiuto di qualunque autorità esterna che tanto affascinava quest'uomo del Settecento.
Se avesse letto i saggi raccolti da Imbruglia, certo Anquetil-Duperron si sarebbe stupito di come il razzismo abbia acquistato nel XIX come nel XX secolo una nuova dimensione, sia cresciuto su se stesso assumendo forme pseudoscientifiche, letterarie, filosofiche. Nell'ampio spettro di argomenti affrontati nel volume si sarebbe comunque mosso a suo agio: la specializzazione disciplinare non era per un dotto settecentesco un freno allo sforzo di formulazione e di comprensione delle questioni fondamentali. Con alcuni temi si sarebbe trovato in piena consonanza: con il bel saggio di Prosperi, che mostra come l'intolleranza religiosa abbia contribuito alla costruzione del razzismo moderno elaborando il concetto di quella "purezza del sangue" che distingueva i veri cristiani dai discendenti degli ebrei convertiti nella Spagna della Controriforma, con quello di Pagden sul nesso razzismo-colonialismo; forse anche con l'esperimento raffinato (e giustamente polemico) di storia della storiografia tentato da Carlo Ginzburg sul problema delle origini della tensione tra ebrei e cristiani nel contesto del crollo dell'impero romano. Più del lettore contemporaneo, forse, Anquetil-Duperron si sarebbe appassionato al saggio di Collors, che analizza le salde basi bibliche delle discriminazioni razziali e i problemi esegetici che i passi filoschiavistici del Vecchio Testamento ("Maledetto Chanaan, ei sarà servo de' servi ai suoi fratelli...") avevano posto prima che un approccio esclusivamente biologico si affermasse nel corso dell'Ottocento. Ma certo, in questo simile a un lettore d'oggi, si sarebbe appassionato ai saggi che danno una reale pluralità di prospettive al volume: mi riferisco a quelli lucidi e pessimisti di Clara Gallini e Pugliese sulla percezione e (mancata) discussione pubblica sul razzismo nell'Italia dei fatui anni ottanta e a quello di Modiano sull'insussistenza di caratteri biologici ereditari davvero rilevanti a distinguere i diversi gruppi all'interno della specie. Forse il cerchio si può finalmente chiudere: siamo tornati al monogenismo di Anquetil-Duperron, a dire con lui che l'uomo "nel fondo" è lo stesso, come la rosa, di cui poco importa se sia rossa o bianca?

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