Dopo qualche decennio di euforia, in cui si è celebrato il ritorno della filosofia politica come disciplina normativa del discorso pubblico e come istanza critica per ragionevoli utopie, i tempi stanno oggi sotto il segno della rassegnazione e dell'ironico disincanto. Una stagione di fiducia nella progettazione razionale della cosa pubblica, tra calcolo utilitaristico e procedure discorsive, sembra volgere al tramonto. Nell'evidente involuzione populistica delle democrazie costituzionali, tornano a prevalere letture della storia del pensiero politico che privilegiano la sua componente retorica, ne fanno un genere filosofico-letterario in cui la narrazione prevale sull'argomentazione. Non è casuale, pertanto, che anche l'interesse degli interpreti di un'opera capitale come il Leviatano di Thomas Hobbes, questo monumento di legittimazione dello stato moderno, si orienti più verso l'analisi delle sue strategie retoriche che verso l'esame critico della coerenza argomentativa e dei debiti nei confronti del dibattito scientifico del suo tempo (e delle filosofie più impregnate di questo dibattito, come quella di Francis Bacon, di cui pure Hobbes fu, e lo si dimentica spesso, segretario e collaboratore). Questo è, almeno in parte, anche il senso della lettura skinneriana di Hobbes, proposta dall'editoria italiana (con non apprezzabile ritardo rispetto all'edizione originale dell'opera, uscita nel 1996 per la Cambridge University Press) nell'accurata ed elegante traduzione di Manuela Ceretta. Contro l'interpretazione che fa di Hobbes l'autore che inaugura la modernità rompendo con la tradizione aristotelica e con la cultura umanistico-retorica e trapiantando la concezione galileiana della scienza nel campo della filosofia morale e politica, Skinner sostiene, un po' sorprendentemente, che Hobbes, oltre a essere senza alcun dubbio "uno tra i più vivaci polemisti della rivoluzione scientifica", è "essenzialmente un teorico delle virtù". Lungi dal poter essere imprigionato nella gabbia metafisica del razionalismo cartesiano o dell'empirismo utilitaristico inglese tra Bacone e Bentham, Hobbes deve essere "inserito in una tradizione che va da Erasmo e More a Rabelais, Montaigne e altri scrittori satirici rinascimentali che si opposero ai loro avversari intellettuali più ridicolizzandone le assurdità che non utilizzando delle argomentazioni contrarie". La nostra ignoranza di quella letteratura retorico-umanistica, a cui tutti i filoni del pensiero politico della prima modernità si sono alimentati, non ci ha forse portati, si chiede l'autore, a disconoscere "il tono ironico e canzonatorio" di tante sue pagine e a interpretare alcuni principi e molte tesi di Hobbes "in modo palesemente errato?". Skinner si spinge anche oltre, impegnandosi in un'affermazione più generale sotto il profilo metodologico: a suo giudizio, la distinzione fra testi letterari e testi storici o filosofici è largamente destituita di significato. "L'elenco dei principali trattati della storia della filosofia è contemporaneamente la lista dei principali testi letterari". L'impianto metodologico originario della new history of ideas, alla quale con Pocock l'autore ha fornito i più importanti contributi, è avanzato qui significativamente in direzione di Derrida e di certo postmodernismo. Leo Strauss, in un libro classico che resta fra i contributi più rilevanti della critica hobbesiana, aveva ricostruito il tormentato cammino che aveva portato Hobbes a emanciparsi dalla cultura classico-umanistica in cui si era formato e che aveva per molti decenni dominato i suoi interessi, motivandolo fra l'altro a diventare traduttore delle Storie di Tucidide. Non diremo ora che Skinner compia, letteralmente, il cammino inverso, proponendosi cioè di mostrare come questa emersione dall'involucro umanistico, la rivoluzione "copernicana" del suo pensiero, datata agli anni trenta, vada limitata al suo primo tentativo di porre su basi nuove, rigorosamente scientifico-deduttive, il sapere politico: agli Elementi di diritto naturale (1640) e al De cive (1642). Nel Leviatano la convinzione che la rivoluzione scientifica abbia creato le premesse per porre finalmente su solide fondamenta anche il sapere morale e politico è sicuramente ribadita, mentre continua a essere ostentato il disprezzo per teorie fondate soltanto sulla presunta autorevolezza di altri autori e scritti e sulle regole degli studia humanitatis, indirizzate a rendere persuasivi i discorsi degli oratori (ben equilibrando tra le doti necessarie a confezionare un discorso efficace, inventio, dispositio, elocutio, memoria, pronunciatio). Ma la strategia argomentativa è cambiata. In un'opera scritta non in latino ma in inglese, e quindi rivolta a un pubblico più ampio, Hobbes si mostra ben consapevole della necessità dell'eloquenza. Negli Elementi e nel De cive la polemica nei confronti di una filosofia che mira a suscitare emozioni anziché conoscere con certezza è dominante e quasi ossessiva. Nel Leviatano, invece, Hobbes "rinuncia a insistere sull'idea che l'arte della retorica deve essere messa al bando dal territorio della scienza civile". L'esperienza del decennio in cui si è svolta la guerra civile (e di cui avrebbe fornito una vivace ricostruzione nel dialogo Behemoth) ha lasciato il segno e si è tradotta in un di più di scetticismo circa la "capacità della ragione di guadagnarsi il consenso". Come già aveva riconosciuto Tucidide (alla cui decifrazione delle logiche del mondo storico Hobbes sarebbe sempre rimasto debitore), gli interessi in conflitto sono in grado di distorcere non solo i ragionamenti ma il significato stesso delle parole, trasformando il linguaggio, come leggiamo nel De cive, in una "tromba di guerra e di sedizione". "L'intuizione fondamentale di Hobbes è pertanto che gli interessi contaminano la formazione delle convinzioni, facendo nascere la volontà di mettere in discussione anche le più evidenti verità della ragione, quando interesse e ragione collidono". Le relazioni tra ratio e oratio vengono ridefinite, sulla base di un più consapevole riconoscimento dei limiti della ragione e della probabilità dell'errore. All'errore e all'ignoranza spetta ora un posto maggiore nella trattazione. Di conseguenza, una ragione che faccia affidamento unicamente sulle sue forze finisce per risultare impotente. Senza le tecniche persuasive dell'arte retorica la verità non riesce a prevalere. La rivalutazione dell'eloquenza è quindi l'esito del disincanto. La tesi convince. Inoltre, la stupenda conoscenza della cultura umanistica e rinascimentale e lo scavo sottile nelle pieghe retoriche del discorso hobbesiano (nonché i contributi apportati alla ricostruzione della biografia di Hobbes) non possono che suscitare ammirazione. E, nondimeno, non si può dire che il grande affresco dell'opera hobbesiana che Skinner ci fornisce in questa superba monografia sia completo: il corpo a corpo tra due anime dell'impresa del filosofo di Malmesbury, quella umanistica e quella scientifica, è ricostruito mirabilmente. Resta troppo sullo sfondo, e in ombra, la terza anima, quella del teologo politico e dell'interprete delle Scritture: l'anima più insidiosa, che maggiormente avrebbe coalizzato contro di lui schiere di suoi per altro ammirati lettori gli umanisti, perché non persuasi retoricamente, gli scienziati, perché non soggiogati, su quel terreno estraneo alla scienza, dal rigore delle deduzioni e dall'evidenza delle prove. Pier Paolo Portinaro
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