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Strana sorte quella di Irmgard Keun: questo suo secondo romanzo ebbe un grande successo anche all'estero, ma venne poi bruciato l'anno dopo nel rogo dei libri nazista. L'autrice dovette emigrare (fu per un periodo compagna di Joseph Roth a Parigi); creduta morta, rientrò in Garmania sotto falso nome già nel '40, ma nel dopoguerra non eguagliò più la fortuna delle prime opere. Da questo romanzo, Julien Duvivier, nel 1960, trasse il film La grande vie, con Giulietta Masina, che senza Fellini tendeva alla leziosaggine e comunque, a quasi quarant'anni, era poco credibile nella parte di Doris, una diciottenne che vuole farsi strada grazie alla sua bellezza. Doris viene da una famiglia dell'infima borghesia di una città di provincia, ha lavorato come dattilografa, poi come comparsa in teatro e infine fugge a Berlino per "diventare una star", dopo aver rubato una preziosa pelliccia. Tiene un diario, in cui risulta curiosa del mondo e generosa del poco che ha (passa parecchio tempo con un cieco di guerra a raccontargli come vede Berlino). Siamo alla fine della Repubblica di Weimar, si percepisce la crisi economica e dei valori, l'antisemitismo montante e lo stordimento di una società vicina al baratro. Il romanzo sembra inclinare allo happy end, Doris trova un uomo che non la sfrutta e non la umilia, ma è ancora così innamorato della moglie che la ragazza se ne va e finisce ancora una volta nella sala d'aspetto della stazione, dove forse ritroverà un ambulante socialista con cui dividere l'esistenza. Il linguaggio è spontaneo e diretto, Keun è una buona osservatrice e vede con chiarezza i difetti e le debolezze umane, soprattutto maschili. La seta artificiale del titolo è una metafora per descrivere quel tipo di ragazza disposta a tutto pur di fare una vita comoda e possibilmente lussuosa. Illustri letterati hanno lodato il testo come Zeitroman, io lascio il giudizio ai lettori.
Marina Ghedini
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