Per chi non ama Duras sarà un duro scoglio, ma il consiglio è di leggerlo comunque. Inedito per l’Italia,
Il camion, che Del Vecchio pubblica insieme a
Agatha con un titolo allusivo,
La ragazza del cinema, è un testo per certi versi ostico (com’è difficile che Duras non sia) ma per altri sorprendente, tale da poter convincere persino un irriducibile.
Sceneggiatura cinematografica molto sui generis, presenta una coppia di interpreti, ma sarebbe più adeguato chiamarli lettori, Marguerite Duras stessa e Gérard Depardieu, seduti a un tavolo in una camera con vista su un paesaggio di periferia. Oltre la finestra passa un camion, ed è dei due personaggi dentro a quel camion che loro, Duras e Depardieu, leggono la storia. Siamo più precisi: Duras la legge, ha in mano i fogli su cui l’ha scritta, Depardieu l’ascolta, ponendo domande quando ciò che sente non gli basta. Ma anche le domande di Depardieu stanno scritte su alcuni fogli, che lui legge.
Il film è il racconto letto, cioè, del film che Duras ha in mente di realizzare. I verbi al condizionale dicono che si tratta della gestazione di un racconto. Riguarda una donna non più giovane (la stessa Duras?) che prende passaggi in autostop da un camionista diverso ogni sera e gli racconta ogni volta la sua storia. Il camionista non l’ascolta mai, a differenza di Depardieu che, invece, prende parte.
In Francia il testo uscì con la pellicola, nel 1977. Edito da Minuit, aveva in appendice un’intervista a Duras di Michelle Porte (Del Vecchio la propone separatamente in ebook:
La minaccia della luce. Intervista con Michelle Porte) che Sandra Petrignani cita a più riprese introducendo questa prima edizione italiana del
Camion, coraggiosamente tradotto da Angelo Molica Franco.
Anche senza le chiose sollecitate dall’intervistatrice però, salta agli occhi la pregnanza di questa sceneggiatura che fa della scrittura un film. Ne trasforma in narrazione per immagini il processo genetico. Quanto di più durassiano si sia mai letto, e al tempo stesso racconto spoglio, privo dei manierismi tipici che hanno fatto del suo stile una ripetuta, mal sopportata autocitazione. Qui il nascere della storia sulla pagina è seguito passo passo e immediatamente trasformato in corpo testuale, il soggetto che inventa quella storia è a tal punto inscritto in essa da diventarne personaggio e anche, poiché quello non basta, interprete: fisicamente lì, ad occupare la scena, a pronunciare le parole della storia. Come diceva un tempo Philippe Sollers, è la voce a produrre il corpo, piuttosto che non il contrario.
Ed è proprio Sollers, tramite alcune sue dichiarazioni su colei che forse era stata inizialmente un’amica, poi allontanata per vicende personali, a ritrarre nella maniera più convincente oggi, a quasi vent’anni di distanza dalla sua scomparsa, e nell’anno a lei consacrato per il centenario della sua nascita, Marguerite Duras. Occhieggia, Philippe Sollers, in più punti del romanzo dedicato alla scrittrice, proprio in occasione dell’anniversario, da Sandra Petrignani, che a sua volta ritorna in questo articolo dando testimonianza del suo trasporto nei confronti di una scrittura per la quale un giorno si mise a studiare il francese, lingua che prima non conosceva.
Il romanzo s’intitola semplicemente
Marguerite (p. 212, € 16, Neri Pozza, Milano 2014). È poi strutturato in tre capitoli ognuno dei quali porta il nome di una fase della vita della scrittrice: Nené, Margot, Duras. Dall’infanzia indocinese agli anni della politica e del femminismo a quelli dello sdoppiamento: la progressiva depersonalizzazione del sé, mentre via via s’installa “l’io mitomane, l’io Duras”, l’epoca in cui comincia a nominarsi in terza persona. Nel seguire questo percorso, ma in maniera non lineare, per libere associazioni, suggerite dal concatenarsi di suggestioni che Sandra Petrignani raccoglie dal proprio vissuto, si vede emergere dalle forme della scrittura che progressivamente cambia, si cantilenizza, si svuota, la fragilità della donna che sempre più viene lasciata in disparte dall’opera, assumendo l’aspetto di un cencio buttato in un angolo, abbandonato, maltrattato.
Petrignani cita dunque Sollers, ricorda quello che le diceva quando i critici si divertivano a giocare con lei come il gatto con il topo: “Il suo comunismo è pura poesia, totalmente impraticabile. La sua sensibilità è al limite del comunicabile”. Cui si aggiunge un altro giudizio dello stesso Sollers, inteso come un rimprovero, quello di “romanticismo esagerato”, alle soglie del grande dissidio che non si sarebbe più ricomposto per ragioni sia etiche che estetiche.
Al di là dell’intenzione (Sollers, soprattutto dopo
Femmes, ha poi messo nel mirino Duras facendone la sacerdotessa di una certa concezione del potere che lo indisponeva, per via del “buco nero” degli anni tra il 1940 e il 1943, per l’amicizia stretta con Mitterrand e altro, aspetti che a Sandra Petrignani non interessano, che non evoca), rimane centrale quell’individuazione, la lettura di certi estremismi come di altrettante forme di riscatto, per un amore materno manchevole, insufficiente.
Ed è questa la ragione per cui
Marguerite non è una biografia bensì, come vuole chi ha scritto il libro, un romanzo. Petrignani non ne fa un segreto: la stessa impossibilità dell’amore materno mai all’altezza della richiesta, la stessa esagerazione sentimentale in età adulta, le ha riconosciute in sé e ha voluto raccontarle attraverso quelle di chi (Nené, Margot, Duras) ne ha fatto scrittura. A differenza di Marguerite Yourcenar, Virginia Woolf, Colette, Grazia Deledda, Karen Blixen o Alexandra David-Néel, protagoniste del volume intitolato
La scrittrice abita qui (Neri Pozza, 2003), serie di ritratti realizzati a partire dalla visita nelle rispettive case-museo, Duras non ebbe un’unica abitazione che potesse diventare riferimento istituzionale. Questo la escluse da quel volume, ma insieme è ciò che la differenzia dalle scrittrici citate. Di Duras si può fare un romanzo, non un museo.
E se da un lato
Marguerite racconta di una scrittrice inevitabilmente diversa dalla persona che essa fu, d’altro lato il libro sta in piedi ed è vero per quella parte di reale cui dà voce. Ci sono i luoghi, vari, che fecero da palcoscenico alle rappresentazioni esistenziali durassiane: l’appartamento parigino di rue Saint Benoît dove la scrittrice visse con il marito Robert Antelme, poi con Dionys Mascolo da cui ebbe il figlio Jean-Outa; la casa fuori Parigi a Neauphle-le-Château (dove furono girate alcune scene del
Camion); quella normanna di Trouville, teatro dell’ultima relazione con Yann Andréa. E così pure il Vietnam, la Cambogia, il Mékong. Ci sono le persone che ebbero a che fare con Nené, con Margot, con Duras: la madre, Marie Donnadieu, che muore nelle prime pagine del libro com’è morta ripetutamente nelle opere della scrittrice, inutile matricidio inutilmente reiterato; i due fratelli Pierre e Paulo; Elio Vittorini; Samuel Beckett; Jacques Lacan; Jeanne Moreau. L’elenco sarebbe lungo. C’è il cinema, strapazzato e reinventato da Marguerite Duras: film come
Hiroshima mon amour o
India Song lo testimoniano tuttora. E ci sono i libri, in un va e vieni da uno all’altro, con alcune principali ricorrenze, frasi incorporate, tracce fisiche della scrittura durassiana. C’è il discorso politico, quello amoroso, ci sono il dolore e l’alcol. Senza però (è la qualità principale di
Marguerite) che Sandra Petrignani si lasci fagocitare da Duras. Riuscendo così nell’impresa del ritratto per persona interposta.
Gabriella Bosco