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Il racconto di Peuw bambina cambogiana (1975-1980)
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1986
1 gennaio 1997
XV-355 p.
9788806593889

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simona
Recensioni: 5/5

Anni fa, dopo aver letto questo libro ho iniziato a cercare tutto il materiale possibile in merito perchè volevo sapere, volevo capire.... Oggi ho molte informazioni, ma non sono ancora riuscita a capire perchè ci sia stato un genocidio così tremendo, perchè in Italia se ne parli così poco e perchè, a distanza di 40 anni, giustizia non sia ancora stata fatta. Un libro che consiglio (.....se lo trovate!)

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Daniel
Recensioni: 5/5

peuw non la conosce nessuno, a scuola si studia sempre Anna Frank, i delitti commessi dai tedeschi..l' olocausto. io credo che nelle scuole si dovrebbe insegnare che dopo Hitler il terrore non e' mai finito, pol pot in cambogia, pinochet in chile, fujimori in peru', i signori della guerra in Africa, abbiamo avuto campi di concentramento fino a pochi anni fa ed a poche migliaia di chilometri dai nostri confini in ex-juguslavia, guantanamo, l' afghanistan, l' iraq.. E' giusto ricordare l' olocausto ma occorre assolutamente rendersi conto che i regimi non sono mai scomparsi, e che migliaia di Peuw stanno ancora lottando contro la morte adesso, in questo preciso momento da qualche parte nel mondo.

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silvio
Recensioni: 5/5

Ho letto questo bellissimo libro alla fine degli anni '80.Un "grido silenzioso" di dolore e perdono,la testimonianza assoluta dell'innocente che non vuol giudicare... é un peccato davvero incredibile che questo libro non si riesca più a trovare, che non venga fatto leggere nelle scuole! Per far eco al Sig. Calvo che ha lasciato un bel commento su queste pagine, posso garantirgli che anche l'Autrice è di sinistra, il chè non significa essere polpottisti o minimamente giustificarne gli orrori! L'Autrice mi ricorda spesso che certe follie non nascono dal nulla:basta ripensare al periodo storico della Cambogia fra il 1970 e il 1975 ,fra guerra del Vietnam, colpo di stato americano col potere al dittatore di estrema destra Gen. LonNol...

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recensione di Frigessi, D., L'Indice 1987, n. 3

Da principio può sembrare una favola, di quelle che mettono paura, dove bambini senza vestiti e senza cibo si perdono nella foresta inseguiti da streghe e da lupi mannari. Ma l'illusione della fiaba che si deve alla innocenza dello sguardo infantile si trasforma in una violenza di enormi dimensioni collettive.
Una bambina cambogiana, Peuw racconta la storia sua e della sua famiglia dal 1975, dal momento in cui i khmer rossi entrano nella capitale Phnom Penh e instaurano il nuovo regime fino al 1980, all'occupazione vietnamita, al suo scampare in Thailandia e poi in Francia dove trova una famiglia adottiva. Quando viene ordinata l'evacuazione della città (per pochi giorni, dicono i soldati accolti come liberatori), la famiglia di Peuw - una famiglia ricca e altolocata di funzionari - e quella dei suoi zii come tutti gli altri vengono mandati in campagna a lavorare la terra. Non solo gli agi, il denaro, un tetto sotto cui ripararsi e il riso con cui sfamarsi, ma anche i ricordi, i sentimenti, il diritto di pregare e di pensare, il diritto persino al proprio nome sono negati e devono essere cancellati. Nel disegno di Pol Pot che si appoggia al preesistente antagonismo tra città e campagna per attuare un "comunismo agrario", non c'è più posto per tutto questo, la vita privata scompare, tutto diventa pubblico.
La nuova Cambodia, La Kampuchea democratica, deve rifiutare gli strumenti della corruzione moderna, distruggere le città, estirpare il ceto urbano, abolire la proprietà privata, il denaro e gli altri mezzi dello scambio e della comunicazione moderni. La memoria collettiva - nota Natalia Ginzburg nella sua prefazione - "deve essere uccisa" e così ogni tradizione culturale e religiosa che si ricolleghi al passato. Il nuovo governo tenta di attuare questo disegno in maniera sistematica e razionale, d'un lato sposta e deporta masse di popolazione per trasformare la struttura sociale del paese, dall'altro cerca di imporre un tipo di uomo "nuovo" che lavora la terra, brucia la cultura e si mostra devoto solo all'Angkar, l'organizzazione che controlla l'intera società cambogiana. Si suppone che tre milioni e mezzo di persone su una popolazione complessiva di circa otto milioni siano morte in quegli anni di fame, di stenti, di malattie endemiche e di terrore, isolati e dimenticati dal resto del mondo.
Il "pol-potismo" ha una lunga storia dietro alle spalle. Per il popolo cambogiano, quasi tutto formato da contadini, gli arbitrii e le morti violente, l'oppressione politica, la manipolazione della religione (il buddismo) e le reazioni antireligiose costituivano fatti comuni della vita quotidiana molto tempo prima degli anni Settanta. Quando questi caratteri emersero, dopo il '75, furono utilizzati contro il ceto urbano che a questo genere di soprusi e di violenze era sempre stato associato il plurisecolare antagonismo tra città e campagna è stato analizzato con molta chiarezza da Michael Vickery nel suo libro dell'84 ("Cambodia" 19751982, Allen and Unwin).
Il paese aveva un'industria piccolissima e poche risorse naturali per svilupparla, la sua economia era tutta nelle mani di un'élite, di una classe pre-capitalista di burocrati che sfruttava la massa dei contadini con le tasse e l'usura. L'indipendenza dai francesi, ottenuta nel '53, aveva favorito il re e le classi dominanti tradizionali. Gli uomini che diressero la "rivoluzione" cambogiana tentarono di capovolgere la storia del loro paese costringendo la popolazione urbana a trasformarsi in una classe di lavoratori rurali. Ma l'uso economicamente irrazionale di questi ex-cittadini, del tutto privati dei mezzi di produzione, che non erano in grado di lavorare con efficienza la terra e per fame o per malattie morivano in massa, e il rigido egualitarismo, il fanatismo ascetico che si traduceva nell'irreggimentazione brutale e nell'espropriazione, non gradita neppure ai contadini, condussero la rivoluzione cambogiana agli orrori dello sterminio e al totale fallimento.
Di questo esperimento di dimensioni tragiche, che cercò di trasformare e di collettivizzare le campagne senza il soccorso dell'industria, il libro di Peuw trasmette elementi che attengono al biografico e al quotidiano ma che, forse anche per questo, ne ricreano l'aura. Testimone è una bambina ma la sua voce è quella della classe urbana sconfitta, oppressa e finalmente sterminata in massa da una classe politica che continuava a proclamarsi marxista-leninista (ma si sa che i vietnamiti la definirono "fascista").
Della sua famiglia Peuw sola si salverà. La quotidiana convivenza con le malattie e con la morte non intimidisce però il suo sguardo, le sue capacità di osservare e di memorizzare. E più della morte, del resto a volte invocata, è presente come sua ancella la fame che induce ad inventare sempre nuovi trucchi, a superare ogni orrore per inghiottire un pugno di granoturco o un granchiolino vivo. Nel '75 Peuw aveva solo dodici anni ma anche la sua vitalità con il passare del tempo, l'aggravarsi degli stenti e l'infittirsi del terrore diminuisce fino quasi a spegnersi. Rimasta sola con i tre cugini, Peuw vaga di villaggio in villaggio, dalla campagna alla montagna, in una sorta d'immenso campo di concentramento grande quanto l'intera Cambogia.
Dopo i primi due anni di relativa vivibilità nel '77 la situazione precipita con il consolidarsi al governo della fazione di Pol Pot, alla quale non pochi quadri e veterani del partito comunista cambogiano avevano tentato di opporsi invano. Peuw assiste al genocidio senza potersi difendere dalla sua logica aberrante, ma la vive e la fa rivivere per noi attraverso una folla di dettagli straordinari che superano ogni immaginazione: la disperata ricerca del cibo e gli antichi rimedi contro le malattie, il trattamento dei morti, il lavaggio del cervello impartito attraverso le sedute notturne di educazione, la percezione annebbiata del tempo.
Scarni personaggi popolano questo suo mondo allucinato: contadini che ancora conservano tratti di solidarietà - uno di essi che ha venticinque anni cercherà di farle da padre - soldati, sorveglianti (spesso donne) e membri dell'Angkar, ragazze e bambini stralunati e vacillanti, genitori che si è costretti a misconoscere. Rimangono impressi i lavori della campagna, i loro ritmi insopportabili e stravolti: semina, trapianto, mietitura e raccolta del riso, taglio dei giunchi, raccolta di erbe paludose e quei paesaggi di foreste e di fiumi in cui marciscono a migliaia i cadaveri.
Autentica, anche se filtrata attraverso il linguaggio dei genitori adottivi che l'hanno aiutata a scrivere, la voce di Peuw tenta di sollevare qualche lembo su una vicenda di popolo avvenuta fuori dal mondo occidentale e in fondo ancora non ben chiarita. Eppure essa è nata anche per intervento di questo stesso mondo: il colpo di stato pilotato dagli Stati Uniti, gli atroci bombardamenti e l'invasione americana di una parte del paese segnarono il totale coinvolgimento della Cambogia nella guerra del Vietnam. D'altra parte gli eccessi cambogiani non uscirono dal cervello di Pol Pot, non furono dovuti ad influssi maoisti n‚ al fatto che i leaders della rivoluzione cambogiana avessero appreso le loro teorie rivoluzionarie a Parigi. Sono piuttosto derivati dalle profonde divisioni interne del paese, dalla natura particolare di questo sommovimento, diverso dalle altre rivoluzioni asiatiche e condotto da intellettuali che trattarono gli studenti e i lavoratori urbani come "nemici di classe" e che vollero attuare un modo di produzione asiatica primitivo e crudele.
Non mi sembra che il racconto di Peuw assomigli al diario di Anna Frank, come suggerisce la copertina del libro. Attraverso la sua testimonianza non affiora la maturazione magari lenta di un fato, ma emerge la memoria profonda e tenace che fa da scudo e una forza che la traduzione amorosa di Natalia Ginzburg conserva.

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